52.NEGAZIONE

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Martina Pov.
Avrei tanto voluto che Jorge ed io potessimo avere il nostro "posto". Come le coppie all'interno di un libro o di un film, quel posto in cui sanno che si ritroveranno se mai dovessero avere bisogno l'uno dell'altro. Quel posto in cui si nascondono dopo un litigio, o quando sono arrabbiati, e hanno il sentore che l'altro riuscirà a confortarli.
Ma Jorge ed io avevo parecchi posti speciali - o almeno per me era così. Le immagini scorrevano all'interno della mia mente come diapositive. Sarebbe stato più facile trovarlo se avessimo avuto un posto sicuro.
Per prima cosa, fui scioccata quando lo vidi uscire dall'appartamento, non riuscii nemmeno a dirgli di prendere la felpa o la giacca. Sperai che prendesse la macchina o sarebbe morto di freddo. Mi ritrovai a piangere quando dovetti spiegare ai due uomini - che sembravano entrambi stupiti dalla corsa di Jorge - che lui era il figlio di Alvaro ed era abbastanza impulsivo nel reagire quando qualcosa non andava per il verso giusto.
Annuirono comprensivi, offrendomi anche un fazzoletto per asciugarmi le lacrime. Cercavo faticosamente di smettere di piangere e pensare con lucidità, ma sapere che Jorge era là fuori da solo e spaventato - incline a cacciarsi nei guai - aggiungendoci il fatto che avessi appena ricevuto quella notizia, non aiutava per niente.
Sapevo che avrei dovuto cercare Jorge, controllare che non commettesse idiozie, ma non c'era nessuno a casa e non avrei potuto lasciare lì quei due uomini ad aspettare che Pattie tornasse.
Dov'era? E se Cande fosse tornata prima di lei, da sola?
La situazione stava diventando difficile da gestire. Ero troppo giovane per sapere quale fosse la cosa giusta da fare. Ero spaventata ed ero sull'orlo di una crisi di panico. Come se l'avesse sentito, uno dei soldati - quello con gli occhi azzurri e la testa rasata - poggiò una mano sulla mia spalla.

"Dovresti seguirlo," disse, riferendosi a Jorge. "Alvaro era un buon amico e vorremmo dare noi la notizia a sua moglie. Aspetteremo qui." L'altro ragazzo, dagli occhi più scuri, annuì, afferrando la borsa di Alvaro dal suolo.
Cosa c'era lì dentro? Vestiti? Foto della sua famiglia? La sua uniforme...
Non volevo saperlo, e non sapevo nemmeno come avrei potuto dirlo a Pattie, Candelaria e Daniel. Il piccolo ed innocente Daniel. Improvvisamente mi sentii sollevata nel sapere che non avrei dovuto farlo io. Non ne sarei stata capace, ero positiva.
"Okay," dissi tirando su col naso. Dovevo smetterla di piangere e cercare Jorge. "Potete aspettare nel soggiorno." Lasciai entrare i due uomini e chiusi la porta. Non si guardarono nemmeno attorno e si sedettero sul divando. Era ovvio che Alvaro doveva aver significato molto per loro, avevano instaurato un'amicizia mentre erano lontani da casa.
Per qualche ragione, questo mi fece commuovere e singhiozzai, prendendo poi un respiro profondo. Lasciai i due uomini lì mentre m'infilai il resto dei vestiti - non mi ero accorta di non aver indosso né le calze né le scarpe e i miei capelli non erano più legati in una coda di cavallo.
Non m'interessava con quale aspetto mi fossi presentata davanti a loro, ad essere sincera. Dopo essermi vestita ed aver maledetto il fatto di non aver comprato scarpe più comode, afferrai la giacca di Jorge (quella che avevamo comprato insieme) e sbattei la porta dopo aver salutato brevemente i due soldati.
Mi fidai nel fatto che non avrebbero ridotto la casa un disastro, visto e considerato i loro stati d'animo, dubitai potesse succedere. Una volta che fui in strada, non ero così felice del fatto che Jorge avesse preso la macchina.
Per prima cosa, non era nelle condizioni di poter guidare. Secondo, ciò significava che poteva essere dovunque e le probabilità di trovarlo diminuivano. Esclusi le case dei suoi amici ed il parco.
Mi strofinai gli occhi con le mani non appena fui in macchina.
Ero consapevole del fatto che il mio trucco si fosse sciolto, ma non m'importava. Cercai di respirare profondamente e di calmarmi. Mi aggiustai la coda di cavallo meglio che potei - solo per comodità - ed avviai la macchina.
Dopodiché realizzai che non avevo la più pallida idea di dove andare. Ma non potevo rimanere seduta lì senza far nulla. Sarei impazzita. Dovevo farlo per Jorge, per cui iniziai a guidare. Pensai ad ogni possibile posto in cui Jorge potesse essere andato.
L'albero a Central Park? No, troppo affollato. E poi non sarebbe riuscito a trovarlo da solo. Il tetto dove mi aveva portato la sera in cui confessò di amarmi? No, era ancora giorno - sebbene il sole iniziasse a tramontare ad ovest della città - e scommettei il fatto che non sarebbe riuscito a superare la sicurezza a quest'ora.
Quella notte mi sembrò un edificio importante e per poco non ci scoprirono. Il ponte su cui aveva disegnato quei graffiti per il mio compleanno? Non sapevo nemmeno dove si trovasse e, questa volta, sentivo che Jorge voleva essere trovato. Presto o tardi, avrebbe avuto bisogno di una spalla su cui piangere.
Guidai per la città per chissà quanto - non volli rischiare di guardare l'orologio sul cruscotto - quando vidi un gruppo di turisti sul ponte di Martina. Mi si accese una lampadina nella testa, e sterzai bruscamente - ammisi che fu un gesto azzardato - nella via che portava al ponte.
Non ero pienamente sicura del fatto che Jorge potesse trovarsi lì, ma c'erano buone possibilità che ero vicina a scoprirlo. Coney Island era un posto tranquillo in quel periodo dell'anno, considerando la temperatura, e ricordai che Jorge aveva detto di venire fin qui a pensare quando non c'era nessuno.
Un po' come facevo io quando uscivo a fare shopping per concentrarmi sui miei pensieri. Quando finalmente ebbi il coraggio di sbirciare l'ora, una volta che ebbi parcheggiato sul lungomare, rabbrividii. Erano passati già 40 minuti da quando avevo lasciato l'appartamento di Jorge. Ero terrorizzata dal fatto che avrebbe potuto prendersi una polmonite.
Chiusi l'auto e superai il parcheggio per poi dirigermi in spiaggia. Notai la macchina arancione di Jorge parcheggiata in un angolo. Occupava ben due parcheggi, contrariamente al fatto che solitamente stava molto attento a parcheggiare tra le linee. Era comprensibile.
Se non altro la macchina era intera, il che significava che anche Jorge lo era. Camminare sulla sabbia con i tacchi fu impegnativo. Continuai ad affondare e immaginai la faccia di mia madre nel vedere ciò che stavo facendo con le sue Louboutin.
Doveva essere preoccupata del fatto che non fossi ancora tornata a casa, ma non volevo controllare il mio telefono. Me ne sarei occupata più tardi. Continuai ad affondare nella sabbia come se stessi camminando nella neve, forse se avessi tolto le scarpe avrei camminato più veloce. Forse non erano ancora così sporche.
Presi le scarpe in mano, reggendo con l'altro braccio la giacca di Jorge. Sobbalzai nell'istante in cui posai il piede sulla sabbia. Ero consapevole del fatto che le dita dei piedi sarebbero congelate prima che potessi raggiungere Jorge.
Prendendo un lungo respiro, il che non fece altro che farmi bruciare i polmoni d'aria fredda, ripresi a camminare. Ringraziai il fatto che il calore della mia giacca fosse sufficiente a scaldarmi. Non avevo ancora visto Jorge. Avrebbe potuto andare così lontano dalla sua macchina? Dannazione.
Finalmente i miei occhi si focalizzarono su un punto scuro in lontananza ed iniziai correre verso di esso. I miei piedi erano praticamente intorpiditi, potei solo immaginare in che stato fosse il corpo di Jorge con quella maglietta leggera. Rabbrividii per lui.
Se Jorge mi avesse sentito, non si sarebbe voltato. Era seduto con la testa poggiata sulle ginocchia, le braccia incrociate attorno ad esse ed era scosso per via dei singhiozzi. Avevo paura di toccarlo nel caso in cui fosse scoppiato o qualcosa del genere, ma non riuscii a sopportare la vista di ciò che avevo davanti.
Ricacciai indietro le lacrime. "Jorge," dissi a bassa voce. Non si mosse. "Ti ho portato la giacca." Non mi aspettavo che la indossasse, così m'inginocchiai dietro di lui - sobbalzando ancora una volta per il terreno gelido - e gli poggiai la giacca sulle spalle. Gli presi entrambe le braccia e cercai d'infilargliele nelle maniche.
Le sue mani erano completamente congelate e la sua pelle era pallida ed arrossata allo stesso tempo. Mi sedetti accanto a lui e poggiai il braccio attorno alle sue spalle, avvicinandomi più che potei. Gli posai persino il cappuccio sulla testa. Quando lo abbracciai, lo sentii tremare. Non sapevo se fosse per il freddo per suo padre.
Non sapevo che cosa dire, per cui rimasi in silenzio. Dopo alcuni secondi, gli afferrai la mano e vi soffiai sopra dell'aria calda per scaldarla. Jorge non protestò né tanto meno parlò. Sapevo che quello era il suo comportamento normale, ma ero ancora spaventata.
Continuai a tenere la sua mano tra le mie. Le dita di Jorge erano diventate viola e sulla sua mano destra vi erano delle escoriazioni. Per favore, dimmi che non hai nuovamente colpito un muro, pregai. Ma, a giudicare dall'aspetto della sua mano, era troppo tardi per sperare. Mi morsi la lingua per evitare di rimproverarlo. L'avrei fatto dopo.
La sua mano non sembrava così messa male come l'ultima volta, non c'era sangue, il che fu rassicurante. Jorge, tuttavia, non mi permise d'infilargli la mano in tasca. Se non altro stavo ottenendo una qualche reazione da parte sua... giusto? "Jorge," tentai di nuovo, la mia voce era ancora sottile.
Non rispose, scosse semplicemente il capo, ancora premuto contro le ginocchia. Non riuscii a vederlo nonostante mi abbassai. Le mie gambe tremavano per il freddo e sfregandole con le mani non servì a riscaldarle. Tuttavia, il dolore svanì quando vidi Jorge sollevare il capo.
Trattenni il respiro. Stava per parlare? "Non siamo mai andati ad una partita dei Nets," disse così lentamente che riuscii a malapena a sentirlo sopra al suono del vento. Affondai i denti nel labbro inferiore per evitare di crollare ancora. La voce di Jorge era così rauca e non riuscii a dire se stava per scoppiare a piangere.
Poco dopo cercò di sollevare lo sguardo, si perse nel mare. I suoi occhi erano velati ed il naso rosso, ma, ancora una volta, pensai fosse per il freddo. Non ero sicura di niente in quel momento. Sperai davvero che non si aspettasse che dicessi qualcosa, perché ero a corto di parole.
Avevo la gola secca, gli occhi pieni di lacrime e non volevo iniziare a piangere davanti a lui. Per una volta, avrei voluto essere io quella forte. Evidentemente Jorge non si aspettava che rispondessi. Continuò a guardare avanti a sé e mormorò: "Se n'è andato. Se n'è andato, cazzo."
Voltò il capo e mi guardò. Avrei preferito che non lo facesse. Il dolore nei suoi occhi era così evidente, quasi come se qualcuno gli avesse strappato il cuore e ora avrebbe solo voluto gridare. Non potevo sopportarlo. Era troppo opprimente. In quel momento avrei fatto di tutto - qualsiasi cosa - per trascinare via tutto il suo dolore, per cancellargli quell'espressione addolorata dal viso.
Feci l'unica cosa che pensavo potesse aiutare, lo abbracciai. Mi strinse a sé, avvolgendo le sue braccia attorno alla mia vita e si strofinò contro al mio collo. Sembrava quasi che lui stesse confortando me e non il contrario, fino a che non lo sentii singhiozzare. Lo strinsi maggiormene a me, accarezzandogli la schiena e la nuca.
Lacrime bollenti mi bagnarono il collo e Jorge sussultò sempre più vistosamente. "Andrà tutto bene," sussurrai, baciandogli la tempia. "Andrà tutto bene." Ripetei quelle parole alcune volte, sapendo che non avrebbero aiutato a dissolvere il suo dolore, ma sentii il bisogno di provarci.
A sua volta mi aveva detto quelle parole tempo prima ed erano riuscite a calmarmi, seppur per poco. Speravo così che potessero avere lo stesso effetto su Jorge. Inutile dire che niente sarebbe andato per il verso giusto, almeno per un po'. Lo sapevo. Jorge lo sapeva. Ma nessuno fece commenti.
Non seppi con esattezza quanto durò quell'abbraccio nel bel mezzo della spiaggia, il suono delle onde che s'infrangevano a riva faceva solo da sfondo, assieme a qualche gabbiano. Non appena Jorge smise di piangere, lasciai andare la presa in modo che potesse sollevare il capo.

B.R.O.N.X.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora