56.BUSINESS PERICOLOSO

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Jorge Pov.
Merda. Speravo che Martina non notasse il gigantesco ed orribile graffio provocato da Peter sul fianco della mia macchina. L'avevo già mandato al diavolo - il che mi aveva provocato un taglio sul labbro, ma che, con mia gran gioia, l'aveva lasciato col naso rotto. Di nuovo. Credo che questa fosse la seconda o la terza volta in cui ho avuto il piacere di rompergli le ossa.
"Qualche stronzo me l'ha ammaccata durante la notte. Non ho avuto il tempo di portarla dal carrozziere", mentii mentre camminavo verso il lato del passeggero per aprire la portiera di Martina. "Un'ultima domanda," disse, ponendo il suo dito indice in un gesto che mi ricordava sua madre. "E io dovrei credere a tutta questa messinscena?"
Beh, non era esattamente un'esperta di sarcasmo. Le dedicai uno sguardo impaziente che però non la smosse minimamente. "Una volta ti fidavi di me," le feci notare, spingendola dolcemente dentro la macchina. Con mia sorpresa, si allacciò la cintura. "Una volta mi dicevi la verità," ribatté velocemente, chiudendomi la portiera in faccia.
Ciò significava che avrebbe scoperto delle corse clandestine? Voglio dire, era abbastanza intelligente da non credere che avevo rigato di proposito la carrozzeria con le sue chiavi solo per divertimento. Non sarebbe passato molto tempo prima che scoprisse cos'era veramente successo - ovvero che Peter aveva sfregato il lato della sua macchina contro la mia. Seriamente, chi ha degli spuntoni attaccati alla propria macchina? Non è qualcosa di illegale? Ho cercato di prenderla bene, di respirare lentamente prima di mettermi al volante.
Speravo che potessimo trascorrere una giornata normale a discapito dell'anormalità. Lottavo contro me stesso perché, ovviamente, sapevo che era colpa mia. Era sempre colpa mia. L'avevamo stabilito molto tempo prima. E non ero ironico. Azionai la macchina, facendo del mio meglio per ignorare gli occhi pieni di lacrime di Martina. Non sapevo se fossero lacrime di rabbia o di tristezza.
Oppure un misto di entrambe le cose. Sembrava non potessi far nulla di buono. La stavo facendo soffrire e la stavo allontanando per poi rivolerla indietro, per inutili motivi egoisti.
Avevo bisogno di lei e mi convinsi che fosse una buona idea ritornare da lei e fingere che non stessi vivendo una doppia vita. Ma se le avessi raccontato tutto? Delle corse clandestine, dei traffici di droga, Anthony, mi avrebbe voluto ancora? Lo dubitavo davvero. Era stata chiara quando mi aveva detto che mi voleva fuori dalla sua vita per sempre. Aprii la bocca, il cuore voleva che parlassi, ma dalle mie labbra non uscì alcun suono. Il mio cervello non lo permise. Avevo troppa paura di aprirmi con Martina. Era uno schifo perché sapevo che il motivo per cui stavo ritornando alla mia vecchia vita potesse allontanare il dolore della morte di mio padre. Anche Martina lo sapeva. Ciò che non avrebbe capito, era perché non avrei potuto trovare altri metodi per superarlo. Avrei voluto farlo, ma ero convinto che fosse tutto ciò che ci si potesse aspettare da me.
L'intero tragitto fu fastidiosamentetranquillo. Martina guardava fuori dal finestrino senza dire una parola. Non aveva reagito quando avevo impostato la sua stazione radio preferita. Mi stavo sorbendo quella lagna di musica pop solo per lei. Ma ciò non richiamò la sua attenzione. Il senso di colpa mi stava mangiando vivo, lasciando un varco colmo di sensazioni nauseanti. Era possibile che i miei stessi succhi gastrici mi stessero corrodendo le pareti dello stomaco? Speravo davvero di no. Sembrava abbastanza disgustoso, non avevo bisogno di sentire una cosa del genere.
Quando parcheggiai di fronte al mio palazzo, Tini non si tolse la cintura. Mi voltai per guardarla. Fingendo che tutto sarebbe andato meglio. Avremmo parlato prima o poi, e mi sarei tolto finalmente questo peso dale spalle. "Sali. Ti prometto che parleremo. Parleremo davvero," dissi, cercando di afferrarle la mano. La nascose sotto alla coscia, il che mi fece male come se avessi una bolla all'interno dello stomaco.
"Non posso continuare così, Jorge," sussurrò, senza distogliere lo sguardo dal parabrezza. "Io ti amo, ma tutto questo mi sta uccidendo." Finalmente i suoi occhi incrociarono i miei. Le sue iridi marroni erano colme di lacrime e scommettevo che stava facendo del suo meglio per non farle uscire. Mi si spezzò il cuore. Io avevo causato tutto questo; non mi ero mai sentito così orribile in vita mia, soprattutto dopo aver sentito quelle tre parole.
Lei mi amava ancora e non lo meritavo. Con i pollici le asciugai le lacrime posate sulle sue ciglia. Poco dopo iniziò a piangere, sganciandosi finalmente la cintura. "Merda," sbottai sospirando. "Non piangere, per favore. Principessa, non piangere." Mi si stava spezzando il cuore. Avvertii persino dolore. Ero un esperto nel far soffrire le ragazze, vero? Avrei voluto prendermi a calci.
Martina non oppose resistenza quando avvolsi le braccia attorno a lei, abbracciandola e stringendola contro il mio petto. Tuttavia, non smise di singhiozzare. "Mi dispiace così tanto, piccola. Per favore, non piangere," la pregai, accarezzandole i capelli e baciandole il capo. Non la meritavo. Era fin troppo buona per me. Non meritava di attraversare tutto questo solo perché il suo ragazzo era un bastardo egoista.
Dopo pochi istanti, Martina sembrò rilassarsi e, poco dopo, smise di piangere. Singhiozzò mentre si allontanò da me, i suoi occhi erano rossi e gonfi. Parte della mia maglietta era bagnata, il che mi fece sentire ancor peggio - sempre se ciò fosse stato possibile. Non riuscii a reggere il suo sguardo, perché mi sentii come se qualcuno mi stesse pugnalando ripetutamente al centro del petto. Martina si asciugò gli occhi con il bordo della manica della sua felpa, riportando poi i suoi occhi verso il parabrezza. "Andiamo," disse con voce rauca.
Preso alla sprovvista dal fatto che volesse trascorrere un altro minuto con me, uscii velocemente dalla macchina per aprirle la portiera. Mi batté sul tempo e non mi volse neppure uno sguardo fino a che non entrammo in casa mia. Come immaginavo, non c'era nessuno. Ora che realizzavo che avrei dovuto affrontarla e che le avevo promesso che avremmo parlato, avrei voluto che ci fosse qualcun altro lì. Non che ciò avrebbe impedito a Tini di farmi l'interrogatorio.
Le diedi un bicchiere d'acqua fredda, perché dopo aver pianto così tanto doveva essere disidratata. "Cosa posso fare per farti sentire meglio?" domandai con tono disperato, appoggiandomi al bancone della cucina. Martina voltò il capo verso la finestra, guardandosi continuamente attorno. Il bicchiere vuoto tremò nella sua mano.
"Sei serio?" sbottò urlando. Sospirai profondamente. "Okay. Sono uno stronzo. Questo lo sappiamo entrambi," iniziai. "Ho mandato a puttane tutto come al solito. Ti ho fatta piangere. Ti ho ferita profondamente. Mi sento orribile per questo. Non puoi nemmeno immaginare quanto male mi senta." Mossi qualche passo verso di lei.
Si appoggiò contro al muro. "Smettila di usare questa scusa. 'Ho mandato tutto a puttane, ma va bene lo stesso perché è questo ciò che faccio.'," disse imitandomi. "Tanto perché tu lo sappia, sei tu che scegli chi essere, Jorge. Non c'è uno schema nel tuo DNA che dice "Questo corpo appartiene ad un teppista, per cui deve comportarsi come tale.'."
Mi accigliai nel sentirla parlare, sebbene non potei biasimarla. "Non è così facile," dissi, portandomi una mano tra i capelli. Martina appoggiò il bicchiere sul tavolo provocando un tonfo. "Guarda, ecco un'altra delle tue stupide scuse." Alzò le braccia verso l'alto per l'esasperazione, appoggiandole poi contro lo scaffare della cucina.
"Sono davvero stanca di sentirle. Sei responsabile della tua vita e delle tue decisioni. Qualsiasi cosa tu decida di fare, dipende da te. Non sei fottuto e non è complicato. È solo ciò che dici sempre a te stesso per non sentirti in colpa. È il tuo modo per convincerti che non è colpa tua se non riesci più a cambiare il tuo stile di vita. Ma cosa credi, Jorge? La tua vita è nelle tue mani. Nessuno può decidere per te."
"Cosa sei diventata, una psicologa?" domandai sarcastico, consapevole del fatto che fossi rientrato nelle modalità: stronzo. Mi lanciò un'occhiata gelida, assumendo un'espressione totalmente arrabbiata. "Quello di cui sono sicura, è che non sono stupida," sbottò. "Quanto tempo pensavi mi servisse prima che ti beccassi a svolgere ancora quei dannati lavori per Anthony? Eh?"
Non risposi perché quella fu una domanda retorica e sapevo che avrebbe continuato a parlare dopo quella pausa. "Ti stai comportando nello stesso modo in cui ci siamo conosciuti." Iniziò, facendo i conti con le dita, "evitandomi, mentendomi, sparendo improvvisamentedopo aver ricevuto messaggi sospetti, fumando come se tutta la tua vita dipendesse da questo, con una nuova cicatrice ogni volta che ti rivedo..."
Sembrava voler aggiungere altro, ma si fermò, esausta. "Non so cosa fare," ammise finalmente in sua difesa, lasciando cadere le mani ai fianchi - le quali non avevano fatto altro che gesticolare per tutto il tempo come se fosse pazza. "So che ti ho promesso che ti sarei rimasta accanto nonostante tutto," la sua voce divenne più dolce, quasi impercettibile, "ma sono combattuta su cosa fare adesso. Ci sto provando, credimi. Sto cercando di essere comprensibile e paziente, di prendermi cura di te. Ma non me lo lasci fare. Stai rendendo tutto più difficile e mi verrebbe voglia di mollare tutto." I suoi occhi si riempirono nuovamente di lacrime e giurai che si stesse trattenendo dal non piangere.

B.R.O.N.X.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora