Ero convinta che una volta sotto le coperte, quando quest'assurda giornata fosse terminata, avrei finalmente trovato un po' di pace. Che illusa che sono! Dopo essermi rigirata almeno un centinaio di volte, aver sprimacciato il cuscino, aver sistemato il lenzuolo, non posso far altro che fissare le travi del tetto a vista che oramai, conosco a memoria. Ci sono centoventisette nodi nel legno, duecentoventitré buchi e una striatura marrone che assomiglia alla Via Lattea . È tutto inutile. Non riuscirò mai a staccare la spina. Fisicamente sono esausta ma il cervello non ne vuole sapere di mettersi a riposo.
Il rumore di qualcosa che sbatte contro il vetro mi mette subito in allerta facendomi tendere come la corda di un violino. Sono troppo agitata. Sarà certamente qualche ramo mosso dal vento. Mi verrà l'esaurimento nervoso a sedici anni! Sarò il primo caso documentato della storia.
Tic. No. Questa volta ho sentito bene. Scendo rapidamente dal soppalco, dove è assiepato il mio letto e vado verso la finestra giusto in tempo per vedere un sassolino sbatterci contro. Cosa diavolo sta succedendo? Guardo fuori. Nel prato del mio giardino c'è John che appena mi scorge, si sbraccia per farsi individuare.
«Che ci fai qui?» bisbiglio uscendo sul balcone in pigiama.
«Vengo a salvare la pulzella in pericolo.» Scherza lui accennando un inchino.
Con il cuore in gola lo vedo arrampicarsi sull'albero del nostro giardino. É agile, scattante, non ha un momento d'indecisione neanche quando spicca il salto per raggiungere il balcone della mia camera.
«Tu guarda che mi tocca fare per parlarti!» mugugna spolverando il giaccone impolverato. «Entriamo o ti prenderai la polmonite.» Aggiunge mentre io inebetita, faccio fatica a credere ai miei stessi occhi.
Che ne è stato della mia vita tranquilla, quella in cui rompermi un'unghia era la cosa peggiore che potesse succedermi? Come sono approdata in questa realtà parallela?! Eppure lui è qui, accanto a me e mi sta trascinando dentro la stanza prima di chiudersi la portafinestra alle spalle.
«John, non avresti dovuto farlo.» Protesto quando finalmente riesco a ricollegare il cervello. Guardo la radiosveglia luminosa. É mezzanotte ed è anche sabato sera. Che diavolo ci fa qui?
«Certo che non avrei dovuto, ma volevo sapere se stavi bene.»
Ecco. Questa è l'ultima cosa che avrebbe dovuto dire. É tutto il giorno che aspetto che qualcuno mi chieda: Sam come stai? Sono tre paroline semplici, semplici ma che nessuno si è preso la briga di pronunciare neanche una sola volta in tutto questa giornata del cavolo. Ma lui è John. Lui sa tutto. Sa anche che sto per scoppiare a piangere davanti ai suoi occhi come una bambinetta di cinque anni? Sì, sa anche questo perché si sfila il giaccone e allarga le braccia.
«Vieni qui.» Mormora ed io non me lo faccio ripetere due volte. Ne ho bisogno. Ho bisogno di scollarmi di dosso questa sensazione di gelo che mi attanaglia il cuore. Ho bisogno di un contatto umano. Mi appoggio alla sua spalla e continuo a piangere senza freni. In silenzio lui accoglie il mio sfogo facendo l'unica cosa di cui ho bisogno: essere presente. Quando allunga una mano sul mio volto per asciugarmi delicatamente le lacrime mi rendo conto che è gelata.
«Quanto tempo era che aspettavi fuori di casa?» finisco per blaterare.
«Un po'».
Mi scosto per guardarlo dritto negli occhi. «Che cosa significa un po'?»
Lui stringe le labbra, imbronciato ma la sua rabbia non è rivolta contro di me quando dice: «I tuoi genitori hanno impiegato un tempo infinito ad andare a dormire e visto che oggi non mi hanno fatto entrare ....»
Non termina la frase. Non ce n'è bisogno. Stavo litigando con papà e le sue assurde teorie quando è suonato il campanello e mia madre ha liquidato lo scocciatore in dieci secondi netti. Credevo che fosse incappata in un rappresentante vista la rapidità con cui aveva congedato l'ospite indesiderato, invece era John e lei ha osato mandarlo via senza dirmi niente. La lista delle mancanze di mia madre diventa più lunga a ogni secondo che passa. Non la perdonerò mai.
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Il mio nome è Samantha Rush (In revisione)
ChickLitAvevo sempre odiato i cattivi ragazzi e lui era il peggiore: spocchioso, arrogante, tenebroso, arrivato a scuola scortato dalla polizia. Avrei dovuto sotterrare il mio senso di giustizia e lasciarlo a marcire nella melma da cui era arrivato, invece...