Capitolo 12 (Parte 1)

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Sono a New York. Appena posso ci sentiamo su skype. John.

Leggo il messaggio per tre volte senza afferrarne il significato. Non è uno scherzo divertente. Digito rapida.

La risposta è immediata. Non è uno scherzo. In questo momento non posso parlare. Ci sentiamo più tardi.

Tenendo il cellulare in mano continuo a fissarlo stralunata. Se n'è andato veramente così, in fretta e furia, senza neanche dire una parola? È assurdo. Io ho bisogno di lui qui e adesso, invece lui prende il primo aereo e cambia addirittura continente!

Avevo deciso per il suo bene di non dirgli niente di Kile  Sanders, certo, ma solo perché ero perfettamente consapevole del fatto che John lo avrebbe capito ugualmente. Io avrei negato, la mia coscienza sarebbe stata pulita ma alla fine gli avrei raccontato fino all'ultima parola. Adesso non so più cosa fare e il cellulare vibra di nuovo.

Numero sconosciuto e nel messaggio c'è solo un indirizzo e un orario. Qualcuno avrà inviato un messaggio per sbaglio. Un momento! È il numero che Kile Sanders mi ha fatto memorizzare! Lapidario come sempre. 

Mi lascio scivolare a terra rannicchiandomi con le ginocchia al petto. Potrei non andare, nessuno mi obbliga, ma ho la sensazione che se non faccio almeno un tentativo me ne pentirò per il resto della via. Troppe volte sono rimasta in attesa che succedesse qualcosa, qualsiasi cosa. Adesso questa è la mia occasione anche se non so che  tipo di occasione. 

Alle quindici e trenta con il cuore che pompa ferocemente sangue nelle vene mi infilo il casco e salgo sul motorino. Quasi non vedo la strada mentre svicolo tra le macchine a tutta velocità.

Quando arrivo all'appuntamento lui è già lì, una macchia scura appoggiata indolente alla parete a braccia conserte.

«Sei puntuale.» osserva sorpreso.

«Sono sempre puntale.»

«Le donne non lo sono mai.» ribatte lui prendendomi per un gomito per trascinarmi lungo il marciapiede.

Gli arranco dietro cercando di tenere il suo passo. «Allora vuol dire che non sono una donna.» bofonchio a voce bassa più che altro a me stessa.

Lui si ferma e si gira verso di me. Mi osserva sfrontatamente. I ricci ribelli che non ne vogliono sapere di assumere una piega, il viso pallido senza un filo di trucco, le labbra aride, per poi scendere sul corpo infagottato sotto strati e strati di vestiti. Fa una smorfia beffarda. «Lo sei. Solo che non sai di esserlo.»

Non ho il tempo di ribattere perché lui si ferma davanti un elegante stabile rinascimentale e suona un campanello. Quando l'immenso portone in noce inizia ad aprirsi silenziosamente dopo uno scatto automatico, ho un piccolo ripensamento. Forse non è stata una buona idea imbarcarmi in questa impresa. Forse sono ancora in tempo per tirarmi indietro. Lui attraversa la soglia ma io non lo seguo, rimango impalata sul posto.

«Allora?» domanda con una nota d'impazienza nella voce girandosi a guardarmi. Poi il suo sguardo si fa beffardo, come se la mia esitazione fosse non solo divertente ma anche del tutto prevedibile. Sì, lui pensa che non avrò in coraggio di andare fino in fondo. Sapere che ha ragione dà una sferzata al mio orgoglio e mi costringe a raddrizzare la schiena.

«Precisiamo una cosa. »Inizio a dire. «Non farò niente che non voglio fare.» Le parole che mi escono di bocca suonano prive di significato persino alle mie orecchie ma lui sembra capirne ugualmente il senso perché con un sorriso di sufficienza ribatte: «Ovviamente. Se sei qui è perché lo vuoi, nessuno ti ha costretta né mai nessuno lo farà.» Deglutisco a vuoto. É vero. Nonostante non mi fidi di Kile Sanders neanche un po', nonostante me la stia facendo sotto dalla paura, nonostante tutto ... sono io a volerlo.

Il mio nome è Samantha Rush (In revisione)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora