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Christina Perri, Jar of Hearts

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Cammino a passo spedito, oltrepassando decine di case tutte uguali, mentre mio padre trascina la mia valigia pochi metri più indietro, in assoluto silenzio.

Ho atteso con ansia questo momento, tentavo di riempire ogni secondo con qualcosa da fare affinché il tempo passasse più in fretta, contavo i giorni, le ore e i minuti che mi separavano dal mio ritorno a casa.

Credevo davvero che lasciare l'ospedale psichiatrico avrebbe cambiato le cose, che non essere costantemente circondata da persone più depresse di me avrebbe potuto aiutarmi, che il profondo vuoto dentro di me si sarebbe in qualche modo potuto colmare. E invece sento che non è cambiato niente.

Osservo la mia vecchia casa e non provo assolutamente niente.

Entro e mi guardo intorno. La disposizione dei mobili è completamente cambiata. O forse sono cambiati direttamente i mobili, non lo so.

Fatto sta che continuo a non provare niente. E non lo capisco.

Sono a casa. Dopo quattro lunghissimi mesi sono finalmente a casa. Dovrei esserne felice, o almeno provare un minimo di sollievo.

E allora perché continuo a sentirmi così, semplicemente vuota?

Vorrei davvero essere in grado di provare qualcosa, qualunque cosa purché mi ricordi che sono ancora viva, perché, ora come ora, mi chiedo se sia realmente così.

Ma, nel momento in cui il mio sguardo si posa su una cornice posta un po' più indietro rispetto alle altre, tutte sistemate ordinatamente su un mobiletto, mi rendo conto di come sia impossibile scegliere tra il nulla e il dolore.

Quando il mio sguardo incrocia quello del ragazzo sorridente nella foto, un'orribile sensazione si fa strada nel mio petto, come se qualcuno mi avesse appena conficcato una lama nel cuore.

E, come una macchia di inchiostro che si espande a contatto con la tela, il dolore si propaga in ogni fibra del mio corpo, quasi impedendomi di respirare.

La gola inizia a bruciarmi e una lacrima sfugge al mio controllo scorrendomi lungo la guancia, ma la catturo prontamente con la mano.

"Jane, mi dispiace, avrei dovuto toglierle..." inizia mio padre alle mie spalle.

Sobbalzo. Per un attimo avevo dimenticato che fosse qui anche lui.

Mando giù il groppo che mi si è formato in gola, per evitare di piangere, accrescendo così il suo senso di colpa.

"No che non avresti dovuto" rispondo, tentando di controllare il mio tono di voce tremante. "Lui era... faceva parte della famiglia, non dobbiamo dimenticarlo."

Rimaniamo in silenzio per un po', e so che, come i miei, i suoi pensieri sono rivolti a lui, ai momenti che abbiamo passato insieme, al tempo che ancora potevamo avere e che invece ci è stato strappato via di punto in bianco.

Mi costringo a pensare ad altro, per evitare di crollare proprio ora, vanificando ogni sforzo fatto fino ad ora.

Sento i passi di mio padre alle mie spalle, e un momento dopo è accanto a me, la sua mano poggiata sulla mia spalla, nel tentativo di confortarmi.

*

"Be', non è cambiato granché, immagino..." constata mio padre, dopo avermi fatto fare il giro della città dove sono nata e cresciuta.

Città comunque si fa per dire. Hambledon è un paese di circa mille abitanti, con giusto un supermercato, posta e banca, il comune, una piazza, un paio di bar e pochi altri negozi in centro.

Lost Souls | H.S.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora