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Imagine Dragons, Demons

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La settimana trascorre lenta e monotona, ogni giorno uguale al precedente.

Ho sempre detestato dover seguire una routine. Ripetere le stesse identiche azioni ogni giorno mi fa sentire come prigioniera di uno schema che fatico a sopportare.

Comunque, non credo di poter scegliere. Devo alzarmi presto la mattina, devo andare a scuola, devo tornare a casa e studiare, sperando che alla fine della giornata mi resti un po' di tempo da dedicare a me stessa.

Eppure, mi sembra di sprecare anche quel tempo. Non faccio nulla di eclatante, semplicemente guardo svogliatamente la tv o tento di rilassarmi per riuscire a sopportare un altro giorno privo di sorprese esattamente come il precedente.

D'altra parte, anche l'assenza di una routine e di impegni da portare a termine mi fa paura. Temo che, se rimanessi sola con i miei pensieri, potrei iniziare a rimuginare su ferite che, per quanto io possa fingere di ignorare, sono ancora aperte, e bruciano come l'inferno.

E allora potrei ricadere nel baratro. E non so se troverei di nuovo la forza per rialzarmi.

Qualche volta mi capita di ripensare a Harry, a quello che ci siamo detti dopo l'episodio del bosco. Mi è piaciuto parlare con lui, ed è la prima cosa che ha suscitato qualcosa dentro di me dopo mesi. Anche se non è stato niente di eccezionale è comunque degno di nota e, per qualcuno che ha passato un brutto periodo in cui niente era degno di essere ammirato, ascoltato o vissuto, conta davvero moltissimo.

È questo che racconto questa settimana all'uomo sulla cinquantina seduto su una poltrona in pelle con un taccuino e una matita fra le mani, mentre io sono sdraiata su un divanetto stretto e scomodo, con le mani sul ventre e lo sguardo puntato verso il soffitto. I piccoli occhiali rotondi poggiano sul suo naso grosso e storto, gli occhi chiari si sforzano di esprimere comprensione, la barba ispida e i capelli neri cominciano a sbiadire a causa del tempo.

Ometto però tutta la parte su Harry. Non l'ho raccontato né al mio psichiatra né a nessun altro. Non so bene perché lo abbia taciuto, è come se sentissi che è una cosa solo mia, e parlarne ad alta voce potrebbe rovinarla e renderla meno speciale.

"Dovresti provare a uscire di più" suggerisce Scott Walker, lo psichiatra che mi segue dai tempi del mio ricovero.

Da quando mi è stato concesso di tornare a casa dalla clinica, devo presentarmi nel suo studio ogni venerdì alle cinque, finché lui non deciderà che non è più necessario.

E, nonostante lui mi ispiri una certa fiducia, attendo con ansia che quel momento arrivi. Nei mesi di ricovero gli incontri nel suo studio erano senz'altro la cosa più sopportabile, ma, ora che sono finalmente fuori, voglio lasciarmi quel periodo alle spalle il prima possibile.

Inoltre, parlare di me e delle mie emozioni mi mette estremamente a disagio e mi rende di cattivo umore. Mi pone faccia a faccia con cose che altrimenti terrei in un angolo della mia mente, nella speranza che non tornino mai a galla. So che è un po' come barare, che nascondersi dai problemi e fingere che non esistano non equivale a risolverli ed eliminarli, ma, al momento, non ho ancora trovato una strategia migliore. E probabilmente è per questo che sono qui.

"Jane?" Una voce mi riscuote dai miei pensieri, e realizzo che si tratta di del mio psichiatra. "Non è una cosa salutare il fatto che ti estranei dal mondo esterno in questo modo."

In effetti, non è la prima volta che mi succede. Mi capita spesso di perdermi nei miei pensieri e di smettere di percepire quello che mi circonda.

"Lo so" rispondo atona.

"Immagino che dovremo lavorare anche su questo" dice, mentre scarabocchia qualcosa sul taccuino che tiene poggiato sulle sue gambe.

Annuisco e inizio a giocherellare con l'orlo del mio maglione.

"E con la scuola come sta andando?" domanda ancora il dottor Walker.

Mi prendo del tempo per mettere ordine nella mia testa, prima di rispondere. Parlare di sé è più difficile di quanto sembra, soprattutto se si affrontano temi che nella propria testa si sceglie deliberatamente di ignorare o accantonare.

"Bene, immagino" rispondo dopo un po'. "Considerate le circostanze."

Le voci riguardo al mio ricovero mi seguono ovunque, ma non mi aspettavo niente di diverso.

"Ho conosciuto una persona" aggiungo, e inizio a parlare di Louis.

Ha tutte le carte in regola perché prima o poi riesca a fidarmi di lui e a considerarlo un amico. Di lui mi piace il fatto che sia sempre e comunque felice per qualcosa, farei di tutto per avere anche solo un briciolo del suo ottimismo.

"D'accordo, per oggi abbiamo finito" conclude dopo un po', avendo controllato il costoso orologio da polso e constatato che l'ora che ho a disposizione è terminata. "Ci vediamo la prossima settimana."

Annuisco e, una volta raccolte le mie cose, esco silenziosamente dal raffinato studio, chiudendomi la porta alle spalle.

Fuori l'aria è gelida, e non mi capacito di come solo una settimana fa ci fossero almeno dieci gradi in più.

Cammino a passo spedito verso la fermata del bus che mi riporterà ad Hambledon e che dovrebbe passare a momenti, sperando di non perderlo.

Ho sempre detestato i mezzi pubblici, continuamente affollati e perennemente in ritardo, ma, in assenza di alternative, sono costretta a farne uso il venerdì, per venire a Portsmouth e presentarmi alle sedute dal dottor Walker.

Quando salgo sull'autobus, una folata di aria calda mi investe piacevole sul viso, in netto contrasto con il gelo che invece regna all'esterno.

Mi faccio strada tra la folla fra spinte e bracciate, per riuscire a guadagnarmi un posto in cui ci sia un minimo di aria, ma mi blocco di colpo.

Quando la vedo, in mezzo alla folla di passeggeri ignari, è come se tutto intorno a me avesse smesso improvvisamente di fare rumore.

I lunghi capelli biondi le ricadono lungo la schiena, gli occhi verdi sono fissi in un punto indefinito, mentre le labbra piene si muovono per parlare con chiunque sia al telefono con lei.

Sto per tornare indietro, per tentare di nascondermi tra la folla ed evitare di doverla vedere anche solo un altro secondo, ma non ho neanche il tempo di voltarmi che il suo sguardo si posa su di me.

Gli occhi si spalancano, le labbra si dischiudono, il cellulare le scivola di mano e lei rimane immobile, incapace di muovere un muscolo, esattamente come me.

E a questo punto, il petto comincia a bruciarmi e il fiato mi si fa corto, mentre i ricordi si riversano nella mia mente tutti in una volta, come un fiume in piena. Muovo alcuni passi verso di lei, spinta da non so quale forza e, quando le sono di fronte accade. Dopo sei lunghi mesi il suo nome lascia le mie labbra ancora una volta.

"Hannah."

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