-Capitolo 7-

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"Hope...Hope mi senti" sentii una voce lontana al mio udito. Le palpebre pesanti, non si volevano mostrare alla luce del giorno. Volevano tenero tutto racchiuso, in un sonno etereo, fatto di passato spazzato via da questo presente in cui ero catapultata. Un viaggio temporaneo. Domande su chi fossi. Ero Hope Weston?! Non lo sapevo più.

"Il dottore ci ha detto che era fuori pericolo. Per quanto la botta sia stata forte non dovrebbe averla danneggiata gravemente. Ormai sono due giorni che dorme" sentii un'altra voce preoccupata, Volevo rispondere, che io li sentivo, che c'ero.
Provai a girarmi o sussurrare qualcosa, ma non ci riuscivo. Vittima di un passato che volevo ricordare, troppo presto per tornare nel mondo reale. Quale delle due era finzione?.

-Ohio 10 anni fa-

"Brava ragazzina, mostrati. Non essere timida. Ti hanno addestrato per essere una puttana non per giocare a domino" ero in piedi davanti a quell'uomo calvo, basso e tarchiato. Gli occhi erano due palle di fuoco rosse, ignettate di sangue, di desiderio viscido, come lui.
Si strusciava la mano sulla patta del pantalone sartoriale, aspettando che il mio corpo uscisse da questo vestito.

Guardai la stanza, piccola e con un letto rotondo. Le pareti rosse, ed una luce soffusa di un'abat jour. Vi era un piccolo lucernario sul soffitto, dal quale penetrava pochissima luce, per rendere tutto più eccitante. Io lo reputavo oscuro.
Sentivo la paura accrescermi. Le gambe tremavano come se stessi facendo un balletto. Mi sentivo priva di forze.

Serrai gli occhi, e mi calai lentamente il vestito, sentendo un freddo trapelare dentro le ossa. Un brivido improvviso che mi portò a raggelare il sangue nelle vene. Probabilmente si era coagulato.
"Si così...ci siamo" ripeté in un sussurro voglioso, come un serpente a sonagli.
Lo guardai sganciarsi la cintura, e sfilarla dai passanti per gettarla con un tonfo pesante sul parquet. Si sganciò la patta dei pantaloni con fierezza, passandosi la lingua sulle labbra.

Alzai le ginocchia, per lasciare il vestito sgualcito a terra, come la mia dignità. Mi avvicinai a quell'uomo che mi faceva ribrezzo. In un attimo mi cinse la vita, attirandomi a lui. Avevo solo quindi anni. Non avevo ancora provato il vero amore. E forse mai l'avrei trovato.
Sentii la sua mano salire sul mio capezzolo e stuzzicarlo. Non provavo piacere, sentivo solo schifo immenso.

Salì con la mano dietro, afferrandomi i capelli in una morsa.
"Inginocchiati puttana" m'intimò severo, e feci come mi disse. Una lacrima solcò la mia guancia, ma non lo diedi a vedere. Restai chinata, verso il suo membro fuoriuscito ed eretto.

"Non devo dirtelo io cosa devi fare" aggiunse derisorio, e seppi solo annuire. Ingoiare il magone, serrare forte le palpebre tanto da farmi male, ed accogliere il suo membro dentro la mia bocca. Immagini di mia madre mentre ci spingeva a me e Grace sull'altalena, mi passarono davanti.

-Più veloce mamma, voglio andare fin lassù- gridavo contenta, scalciando le gambe in aria.

-Fino al cielo? Eh va bene...Via- una spinta più forte ed il suo sorriso sincero riecheggiare nel verde del giardino. Afferrai la mano di Grace, che strinse dolcemente ridendo con me.

Mentre andavo sempre più forte, e la sua mano stringeva i miei capelli, tanto da indolenzirmi il cuoio capelluto.

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"Sta aprendo gli occhi. Si...Hope" sbattei le palpebre più volte, vedendo una luce abbagliante accecarmi le iridi stanche.

"Jason" sussurrai il suo nome, mentre sentii una mano stringere la mia. Una mano soffice e calda.

"Hope, sono Simon" parlò pacato, mentre riacquistavo piano la giusta visibilità. Ero distesa, sopra un lettino. Le pareti bianche e tristi, e qualcosa attaccato al mio braccio, una flebo forse.

"Simon" ripetei il suo nome in un sussurro impastato. Feci mente locale, quella poca che mi era rimasta. Era il mio ragazzo...no...il mio futuro marito. Si era lui.

"Si amore. Sono qui" disse soffice ed esile, sporgendosi in avanti per sentire le sue labbra screpolate sulla mia fronte accaldata.

Sentii il rumore di una porta spalancarsi con un cigolio e il rumore di passi riecheggiare.
"Scusateci, vorremmo visitarla" disse una voce forte e vigorosa.

"Dove sono?" Domandai in generale, alzandomi appena con la schiena indolenzita.

"All'ospedale Zuckerberg, San Francisco. Ricorda? È stata investita da una macchina. Fortunatamente un ragazzo che passava di lì l'ha salvata. Ha chiamato l'ambulanza ma appena sono arrivati era già andato via" mi confidò cristallino il medico, con il camice bianco addosso.

"Uhm" mugugnai, cercando di ricordare a sprazzi la serata passata.

"Venga" mi aiutò a sedermi.

"Quante sono?" Vidi due dita alzate, davanti al mio viso. Misi a fuoco meglio. Si erano due.

"Due" affermai stanca, volendo riposare ancora. Il mio corpo lo necessitava e forse anche la mia mente.
Mi puntò una luce forte davanti agli occhi, in cui feci una smorfia, e vidi la stessa luce dei fari.

"No" sbottai, impaurita, vedendo Simon correre verso di me, ma il medico lo fermò.

"Si calmi. Ora lo tolgo" spiegò pacato, spegnendo l'attrezzo, e mi sentii più sicura, ed il battito accelerato, diminuire.

"No ha commozioni cerebrali, anzi" si girò verso Simon che ora riuscii a vedere meglio. Aveva lo sguardo preoccupato ma ora più sereno. Si passò una mano tra i capelli annuendo e rivolgendomi uno dei suoi dolci sorrisi.

"Cosa si ricorda signorina?" Mi spostai nuovamente sul dottore, che posò nella tasca del camice, l'oftalmoscopio.

"Ero con Johanna, una mia amica. Sono uscita a prendere una boccata d'aria. Rumore troppo. Poi un ragazzo mi si è avvicinato...e poi sono stata liberata. Mi ha detto -scappa- ed io sono corsa e poi una luce" parlai a raffica, rivivendo parte della serata ancora sfocata dentro di me.

"Va bene signorina. Si riposi" m'intimò gentilmente il medico. Dando una pacca sulla spalla a Simon che riprese la sedia mettendosi a sedere.

"Johanna mi sentirà" affermò risoluto Simon, stringendomi la mano ed accarezzandomi le nocche con il pollice.

"No ti prego. Non è stata colpa sua" ammisi fievole, con voce debole, stendendomi meglio sul letto, avvertendo il cuscino soffice.

Guizzò i suoi occhi dolci nei miei.
"A quest'ora non saresti qui" mi riprese, mentre allungai una mano verso il suo viso, che avvicinò per facilitarmi il lavoro.

"Si ma sono viva. Non dovevo allontanarmi. Promettimi che non le farai la paternale" gli dissi dolcemente e gli rivolsi un sorriso dolce che ricambiò, baciandomi la mano.

"Te lo prometto" mi confermò, prima di alzarsi.
"Vado a lavoro...riposati" aggiunse amorevole mentre annuii debolmente, vedendolo avviarsi verso la porta e richiuderla debolmente. Lasciandomi cadere nel mio sogno, se era un sogno.

-Rewinding of me- Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora