Capitolo due

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Camila pov

Erano passati tre anni dall'ultima volta che avevo rivisto le ragazze.
Avevo abbandonato il gruppo musicale per dedicarmi alla mia carriera da solista.
Non mi ero mai pentita di quella scelta.
Scrivevo e cantavo la musica che piaceva a me, trasmettevo sentimenti che provavo veramente ed era incredibile vedere quante persone si rispecchiassero con essi.
Mi ricordava che al mondo non siamo soli, anche se la maggior parte delle volte è così che ci sentiamo.

Avevo trovato un modo per ingannare la solitudine che spesso e volentieri mi teneva prigioniera durante i diversi tour con le mie compagne. Non era colpa loro, ero io ad essermi estraniata.
Il rapporto fra loro quattro era sempre stato più affiatato, c'era una tale sintonia che si capivano con un solo sguardo, ma per me era diverso.

Non ero mai stata brava a interpretare il linguaggio del corpo, a percepire emozioni che rallegrano o costernano l'altro. Mi aspettavo che se le persone avessero avuto bisogno di me sarebbero semplicemente venute a chiedermelo, ma invece le mie compagne comprendevano subito se c'era qualcosa che non andava nell'una o nell'altra senza bisogno di parole superflue.
Io mi sentivo tagliata fuori, ripeto, non per colpa loro, eravamo solo persone diverse.
La semplicità con la quale si immedesimavano nei problemi dell'altra era disarmante e non faceva altro che ricordarmi quanto per fosse difficile.

Durante quei tre anni avevo lavorato non solo sulla mia musica, ma anche su me stessa.
Mi ero ripromessa di cambiare, di trovare quell'empatia in loro innata e di non consentire al mio istinto di alienarsi dai rapporti umani.

Inizialmente non era stato facile, per niente.
Quando si inizia un percorso di mutamento, che sia soddisfare noi stessi o compiacere il proprio partner, è sempre un lavoro lungo e faticoso.
Spesso mi ritrovavo a leggere nella mia camera d'albergo, invece che a festeggiare assieme alla crew. Nei primi mesi facevo un passo avanti e due indietro, a volte era così stancante che mi nascondevo sotto le coperte del letto a piangere per la frustrazione e decidevo che non ne valeva la pena, perché ogni sforzo era vano.
Però tutte le mattine mi alzavo con animo volitivo e impiegavo la giornata facendo piccoli passi che piano piano mi aiutarono a cambiare, ad aprirmi maggiormente ai sentimenti, ad accogliere le persone nella mia vita invece che allontanarle.

Era questo che avevo fatto con Lauren.
L'avevo allontanata per paura, per codardia, per rabbia... Un misto di emozioni che mi avevano strappato via l'unica persona della quale sia mai stata veramente innamorata.

In quegli anni non l'avevo dimenticata, perché allontanare qualcuno non equivale a scordarlo.

Avevo girato il mondo, esibendomi in più paesi per migliaia di persone e, se quando ero sul palco non avvertivo la sua mancanza perché le urla del pubblico e la dedizione alla mia carriera non mi permettevano di lasciar spazio alle emozioni represse, la vacuità mi colpiva ogni volta che rientravo in stanza.

Avevo attraversato un momento di negazione, nella quale denigravo i miei sentimenti, gli accartocciavo e pretendevo che appartenessero a tutt'altra categoria. Fingevo che fosse un'assenza procurata dalla mia famiglia, la quale non vedevo da mesi ormai. Così chiamavo più spesso Sofi, mia sorella, o contattavo mia madre anche per le cose più banali, ma anche se mentivo spudoratamente di fronte a me stessa, i suoi occhi verdi tornavano a rammentarmi che era solo una bugia.

Lasciai trascorrere il tempo, un altro anno per la precisione. Continuai la tournée, mi esibii sempre più frequentemente, uscivo in pubblico senza tentare di mascherare la mia identità perché quando le persone mi riconoscevano, il che accadeva quasi sempre, accorrevano per farsi foto con me, avere un autografo e tutte quelle attenzione colmavano, momentaneamente, il vuoto.

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