Capitolo quarantatré

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Lauren pov

Arrivai a New York trainandomi dietro le valigie. Alzai lo sguardo verso il tabellone che annoverava i molteplici arrivi o partenze. L'ora lampeggiava in rosso sopra di esso, indicando precisamente le due del pomeriggio.

Avevo chiamato Lucy il giorno prima, avvertendola della mia inaspettata visita.
Era risultata decisamente sorpresa e dal modo ambiguo in cui aveva scandito la domanda "va tutto bene?", avevo intuito che presagisse qualcosa.

Mi affrettai ad uscire dall'androne, feci scivolare la montatura degli occhiali sul naso, dapprima fissati sopra la fronte per domare i ciuffi selvaggi che, come prevedibile, ricaddero sulle lenti neri, creando un gioco di ombre. Spostai le ciocche con un veloce gesto della mano, infine soffiai su di esse per spostarle dalle guance arrossate a causa dell'aria pesante.

Mi avviai verso l'uscita, rendendomi effettivamente conto che quella fosse la prima volta che camminavo normalmente confondendomi nella folla, senza essere acclamata dai fan. Nessuno era a conoscenza della mia estemporanea partenza, se non le ragazze. Era piacevole tornare ad essere una semplice ragazza di Miami, avanzare indisturbata senza dovermi preoccupare di indossare nessuna maschera per la stampa.

Entrai nella macchina posteggiata poco fuori dall'uscita principale. Diedi l'indirizzo all'autista, il quale annuì riverente abbassandosi addirittura la visiera del basco; doveva essere nuovo nell'ambiente, chiunque ci conoscesse un minimo sapeva che a nessuna di noi importavano tante cerimonie.

Sfilai il telefono dalla tasca dei jeans per avvisare Camila del mio atterraggio. Scarico. Ovviamente. Avevo ascoltato la musica per nove ore ininterrotte, letto libri scaricati precedentemente sulla libreria digitale e giocato con applicazioni insulse per passare il tempo.
L'avrei messo in carica una volta arrivata all'appartamento.

Chiesi all'autista di lasciarmi vicino a Central Park, imboccai una strada affollata godendomi il rumore dei continui clacson, le voci delle persone indaffarate in chissà quali questioni, le spinte della folla... Tutte cose che quotidianamente mi avrebbero adirato, ma non quel giorno. Quel giorno ero in procinto di riprendere in mano la mia vita e anche se questo andava a discapito di Lucy, sapevo che allontanarsi era la cosa migliore anche per lei.
Avrebbe potuto trovare qualcuno capace di amarla come meritava, di apprezzare i suoi difetti proprio come io amavo quelli di Camila.
Avrei solo voluto capirlo prima, di quello mi pentivo, di quello mi accusavo.
Tre anni erano un tempo lungo, forse Lucy non avrebbe capito, anzi sicuramente.
Io ci avevo provato ad innamorarmi di lei, ma rivedendo gli occhi di Camila avevo capito che non avevo fatto altro che aspettarla.

Non mi avrebbe mai perdonato di averla tenuta legata inutilmente per tre anni. E io non potevo biasimarla, ma adesso era arrivato il momento di guardare in faccia la realtà, di fronteggiare i miei sentimenti. Non volevo più scappare, nascondermi, o dissimulare l'amore perché intimorita da esso.

L'amore mi aveva raggirato, mi aveva cambiato, mi aveva fatto soffrire e mi aveva deriso, ma adesso io gli stavo davanti e non avevo intenzione di andarmene finché non mi avrebbe reso indietro ciò che mi aveva tolto.

E Camila era la persona con la quale volevo lottare. Anche a lei era stato sottratto molto e sapevamo che insieme avremo risanato tutte quelle ferite che il tempo ci aveva procurato.
Io non scappavo più, perché al mio fianco avevo lei a tenermi la mano.

Salii le scale dell'appartamento, escludendo l'ascensore fin da subito per il semplice fatto che salire a piedi mi avrebbe rallentato e avrei avuto più tempo per ponderare un discorso sincero che non mi facesse risultare una banale stronza.

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