Capitolo cinquantacinque

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Camila pov

La luce rosata dell'albeggiare filtrava attraverso le finestre, fendendo il suo corpo mezzo nudo, riverso sul materasso, coperto da un fine lenzuolo bianco.
Disegnavo dei cerchi lungo la sua schiena, lambendo appena la sua pelle con la prominenza dei polpastrelli.
Coloravo la parte delle sue scapole, marcavo la spina dorsale fino a sfiorare il coccige; più in basso era avviluppata nel lenzuolo.

La sua pelle rosea aveva un fulgore proprio sotto i raggi del sole, ed emanava un odore pungente a causa delle piccole gocce di sudore che imperlavano il suo addome, ma non aveva perso l'essenza che la contraddistingueva.
Potevo riconoscere il profumo peculiare della sua epidermide, leggermente contaminato dagli ormoni che avevano bagnato il letto è reso l'aria nella stanza più rarefatta.

Non riuscivo più ad immaginare come sarebbe stato svegliarmi senza di lei. Ci provavo, richiamando alla mente quei momenti, negli scorsi tre anni, nei quali la parte del letto era sempre vuota, o improntata dalla sagoma di un corpo di un incontro casuale avvenuto la notte precedente, ma non era la stessa cosa. Mi sembrava di non svegliarmi mai, o almeno così avrei voluto fosse, perché almeno dormendo avevo la possibilità di incontrarla.

Ora, il mio indice si spostava lungo le sue spalle, tracciandone i contorni con estrema cura, come se io stessa li stessi disegnando.
E il suo corpo prendeva forma sotto il mio tocco. Sorrisi, inclinando leggermente la testa su un lato per catturare parte dei suoi lineamenti sprofondati nel cuscino e ombrati dai capelli corvini. Era così bella che ebbi paura di uscire dai contorni del disegno che stavo pitturando sulla sua pelle, sfregiandola.

Emise un leggero lamento, muovendo irriflessivamente la spalla. Staccai il dito mestamente, non volendo ridestarla dal sonno. Ci eravamo addormentate tardi, le prove oggi erano state cancellate perché il concerto, per problemi tecnici, era stato rinviato al giorno seguente, quindi lasciai che riposasse. Io non avevo resistito ad ammirarla. Svegliarsi accanto alla persona che si ama può sembrare una banalità per molti, ma per me era un dono inestimabile: come se fosse Natale tutte le mattine.

«Lauren! Aspetta un attimo... Ah, maledizione!» Portai una mano sulla caviglia dolorante. Accidenti a te angolo! 

Continuai a saltellare per l'appartamento, tenendomi in equilibrio precario con il braccio aperto a tastare il muro. Lauren era schizzata come un razzo giu per le scale, evitando qualsiasi ostacolo che, ovviamente, io avevo colpito in pieno. La mia goffaggine non aveva limiti, tanto meno decenza.

«Muovi il culo cubano, Camz!» Urlò dal piano inferiore, mentre lo strappo della carta da regalo strepitava nelle mie orecchie.

«Aspettami!» La sgridai, aumentando il passo, seppur ancora incerto per l'acuto dolore alla caviglia.

Mia madre e mio padre apparirono sulla soglia della porta di camera, ancora assonati e con i capelli arruffati. Li salutai con un sorriso e un veloce gesto della mano, quando mia sorella corse per il corridoio urlando

«È Natale!» Non notò nemmeno i nostri genitori, tantomeno me. Mi diede una spinta involontaria, mentre si dirigeva dabbasso.

Andai a sbattere contro il muro, girandomi di scatto verso di lei, intenta a maledirla, ma lo sguardo severo di mia madre mi ammutolì.

«È felice, mi hija. Natale è un giorno che cade una sola volta l'anno.» Sorrise, venendo a darmi un bacio sulla guancia.

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