-Incontri scontri-

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Aaron storse il naso e lasciò cadere la grande valigia tenuta tra le mani, sentendola risuonare all'interno dell'abitazione.
Suo padre inspirò una dose d'aria e la ributtò fuori lentamente.

«Non è poi così male» commentò, senza però staccare un piede dalla linea della porta.

Aaron deglutì.
La nuova casa era grande come il salone della villa dove aveva vissuto sin da bambino. Un buco, confrontato al lusso a cui era abituato.
C'era così poco posto. Si sentì mancare il fiato e girare la testa.
Non solo avrebbe dovuto rinunciare alla sua posizione prestigiosa nella comunità, ma anche agli spazi personali e alle comodità.

Jonathan si voltò nella sua direzione, scoccandogli un sorriso teso e, tuttavia, non abbandonò l'autorità nello sguardo.

«La domestica giungerà due volte alla settimana, di questo non dovrai preoccuparti, Aaron. Per il resto, potrai contare solo sulle tue forze. Sono certo che saprai cavartela, sei figlio di tuo padre.» Si inorgoglì nel pronunciare l'ultima frase, gonfiando il petto.

Uno. Due. Tre.
«Avete ragione, padre, sarò di certo all'altezza della situazione» abbozzò un sorriso fiducioso, sentendosi morire dentro.

Come poteva pensare di farlo vivere in quella casa? Strinse i pugni.
C'era ancora tempo per rifiutare l'offerta, ma, anche a costo di fargli sputare sangue, suo padre lo avrebbe tenuto in quell'abitazione, volente o nolente.
Lo osservò voltargli le spalle e scendere le scale veloce, più in fretta del solito.

Voleva scappare da quel luogo, come giudicarlo?

Era però lui quello destinato a vivere in una topaia.
Sospirò e lanciò un'occhiata ai facchini mentre si affaccendavano attorno a lui. Sistemarono tutti i suoi effetti nelle credenze, nei cassetti e negli armadi.

Aaron puntò gli occhi sui propri piedi e strinse nella tasca il porta fortuna donato da Simon.
Si trattava del coccio di un vaso limato e spuntato in modo da renderlo perfettamente tondo. Passò le dita sul rilievo del bordo e si sentì già meglio.
Non era un regalo costoso o ben rifinito, eppure si sentì rincuorato.

Lo scopo era quello di donargli forza.

Quando il tonfo della porta si propagò alle sue spalle, il poco coraggio che aveva racimolato, scomparve.
Si guardò attorno.

Era solo.

Restò fermo, in piedi, le spalle ritte e rigide.
-Non piangere-, ricordò a se stesso, strizzando le palpebre.
Avrebbe solo dovuto ambientarsi.
Facile.
Dalle scale udì un colpo sonoro e le spalle sussultarono involontariamente.
Portò alle mente le parole dei suoi amici pronunciate poco prima di vederlo partire.

«Chiudi bene la porta», gli aveva consigliato Auguste mentre i suoi occhi sprizzavano paura e invidia, «quei bifolchi saranno di certo capaci di aprire ogni serratura, e per questo dovrai sempre assicurarti che i lucchetti siano tirati» aveva aggiunto, agitando il ventaglio per farsi aria.

Aaron deglutì e si volse verso l'uscio, soffermandosi sulla grande mole di perni e fermi installati nel legno dai fidati operai della famiglia.
Afferrò il metallo e lo mosse in direzione dello stipite, udendo il classico suono della chiusura.
Provò a farlo altre due volte, giusto per essere sicuro di avere portato a termine le giuste procedure, e lasciò andare il fiato.

Un pensiero gli balenò nella mente e il corpo reagì di conseguenza, costringendolo ad allontanarsi di quattro passi.
E se uno di loro avesse usato un'ascia contro il legno della porta?
Fissò il perimetro e deglutì ancora.
-Impossibile-, si disse, sentendo una goccia di sudore colargli lungo la fronte.

Schiavo del Mio amore MalatoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora