-Questa è la mia vita.-

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La persiana sbatté contro la finestra, gli infissi tremarono e uno spiraglio gelido invase la stanza, aggrappandosi a tutto quello che c'era.
Le coperte frusciarono, e Aubrey se le tirò fin sulla testa, raggomitolandosi su se stesso.
Aveva il naso freddo, tanto da temere che gli sarebbe caduto da qualche parte senza possibilità di ritrovarlo.

Cercò di scaldarsi le mani con il fiato e schiacciò i bordi della felpa contro il viso, allietando la sua pelle ghiacciata con il poco calore trasmesso dalla stoffa.
Respirò, respirò con tutti i polmoni, sfamandoli di quel profumo fresco e pulito.
Sorrise e abbracciò il proprio corpo come se avvolgesse quello del ragazzo a cui pensava in quel momento.

Aaron Baker.

Il suo sguardo gli era entrato dentro, si era stampato in un lato della sua mente e non aveva proprio voglia di toglierlo da lì.
La sua mano si mosse, sfiorando il proprio petto con la punta delle dita. Una danza lenta, un ballo che sapeva dirigere solo lui.
Indugiò contro il bordo dei boxer, giocando con l'elastico morbido.
Spinse la mano all'interno, sospirando il nome di Aaron sulle proprie labbra.
Immaginò quel corpo esile steso sotto il suo, le sue mani delicate che gli cingevano il volto e la sua bocca socchiusa.
Quelle bellissime iridi cupe colmate del piacere e dalla voglia, una voglia dirottata solamente verso di lui, così come il suo nome gridato al culmine del piacere.

Un fracasso gli fece aprire le palpebre e l'immagine del moro svanì così com'era venuta.
Una bottiglia caduta in terra, vetri sparsi sul pavimento.
Sbuffò e si tolse le coperte di dosso, infilando il paio di pantaloni a terra tra la polvere.
Sospinse la porta cigolante e si mosse verso il piccolo saloncino praticamente attaccato alla sua stanza.

Non era nulla, se paragonato all'abitazione di Aaron.
Rabbrividì nel rammentare quante cose spaventose racchiudeva quella casa.
Non ci sarebbe tornato mai; magari, avrebbe chiacchierato con l'amico attraverso la finestra della cucina, senza spingersi oltre il balcone.

«Mamma?» chiamò entrando nel salone, stando attendo a non schiacciare la scia di vetri affilati.

Alzò gli occhi al cielo, percependo i gemiti di piacere dei suoi genitori.
Non era stato un litigio ma, probabilmente, avevano urtato per sbaglio una bottiglia con le braccia.
Sbuffò ancora e alzò le spalle. Tanto valeva fare colazione, già che c'era.
Afferrò la sua tazza di ceramica e si mosse nella stanza, affacciandosi dalla finestra.
Tese il braccio e prese tra le mani il latte freddo che tenevano su di un piccolo ripiano all'ombra.

Da quando il frigo aveva esalato gli ultimi respiri, erano stati costretti ad agire in quel modo per mantenere il cibo fresco.
Suo padre diceva di non avere voglia di andare a comprarne uno nuovo, sebbene sia Aubrey che la madre se ne fossero lamentati spesso.
Il biondo scostò la sedia rumorosamente e si sedette al tavolo, riempiendo la tazza di cereali fino a metà, bagnandoli con una generosa dose del liquido bianco.
Posò lo sguardo sui due corpi in movimento stesi sul divano.

Non era raro che i suoi genitori dessero spettacolo, era ormai abituato a rapportarsi con quelle scene. Negli ultimi anni, poi, erano avvenute sempre più di frequente, e non ci faceva più caso.
Fece una smorfia osservando il corpo nudo di sua madre.
Le donne erano bellissime, per carità, ma non sentiva nulla nei loro confronti, neppure un po' di calore alla base dello stomaco.
Non provava la stessa reazione di quando si trovava a fissare il fisico di un ragazzo.

Mangiò puntando gli occhi nel cibo, estraniandosi da quella stanza.
Solo quando percepì il tocco di sua madre sul braccio, tornò con i piedi per terra.

«Tesoro, hai bisogno di qualcosa?» domandò lei, avvolgendo le curve nella vestaglia stropicciata.

Aubrey corrugò la fronte e scosse la testa.
«No, vado a scuola» rispose, sollevandosi dalla sedia.

Schiavo del Mio amore MalatoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora