-Un pomeriggio nero.-

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Salire i gradini superiori del palazzo gli sembrò strano, come vivere fuori dal suo corpo.
Mai si sarebbe immaginato a compiere un atto del genere e abbandonare la sicurezza della propria abitazione.
E invece eccolo lì, mano nella mano con Aubrey a sfidare le scale ripide.

Scosse la testa per scacciare i pensieri.
In seguito ai racconti dell'amico sulla sua famiglia, dov'erano uscite chiacchiere sugli scenari dei loro rapporti sessuali davanti al figlio maggiore, si sentì vibrare.
Come sarebbe riuscito a tenere per sé il ribrezzo provato verso quelle persone?

-Lo faccio per Aubrey-, continuò a ripetersi.

Gettò uno sguardo alle altre porte, alcune delle quali mostravano addobbi vecchi e logori.
Seguì con gli occhi il percorso dei graffi nel legno; sembrava fossero stati fatti dall'esterno con un oggetto appuntito.
Le voci dei suoi amici risuonarono con prepotenza nella sua testa e si ritrovò a ingoiare e a sgranare le palpebre.
Allora, erano vere le dicerie sulla brutalità tra i componenti del ceto medio?

Sentì l'urgenza di andarsene e fissò disperato il compagno mentre indugiava con le chiavi tra le dita, scegliendo quella giusta.
Perché non aveva messo un segno distintivo, così da entrare subito?
Immaginò lo sguardo delle persone attraverso lo spioncino, i brividi gli percorsero la schiena.

«Aubrey... Chi abita su questo piano?» domandò insicuro, stringendosi a lui nel cercare protezione.

Lo vide alzare le spalle. «Non so, forse nessuno» rispose con un ghigno divertito.

Il moro dischiuse le labbra confuso.
Stava giocando con la sua paura, o diceva sul serio? Non riuscì a capirlo.
Riguardò le decorazioni.
Qualcuno doveva abitare per forza in quelle case.
Corrugò la fronte ancora dubbioso e ascoltò Aubrey ridere e girare la chiave nella serratura.
Il profumo di caffè gli venne incontro con una zaffata, lo avvolse predominante tanto da fargli arricciare il naso.

«Ecco, casa mia» esclamò il biondo calciando via una scarpa da davanti l'uscio.

Aaron si bloccò a un solo passo oltre la soglia, la porta ancora aperta e il vento dalle scale a soffiare negli spifferi. Ascoltò l'aria catapultarsi con bramosia attraverso le crepe nel muro sopra le finestre.
Si fece coraggio.
Era pur sempre stato da Steven, non poteva poi essere tanto peggio di quel giorno.

Tuttavia, ebbe un attimo di ripensamento.
Lanciò un'occhiata preoccupata alle tubature sporgenti nelle mura da dove colavano gocce continue, cadevano sul pavimento e si univano al resto della pozza già presente.

«Mamma?» gridò Aubrey lasciando l'amico fermo all'inizio.

Ad Aaron venne in mente la medesima situazione accaduta tra loro, solo che, questa volta, i ruoli si erano invertiti e si trovava lui in bilico se muoversi o no.
Il silenzio gli venne incontro e sospirò, sfregando le mani tra loro alla ricerca di un po' di calore.
Sembrava come se l'abitazione non avesse neppure le pareti, il freddo penetrava libero di invadere l'aria.

«Non ci sono» confermò l'amico tornando all'entrata e lui tirò un sospiro di sollievo.

Aveva più volte immaginato cosa dire ai suoi genitori, senza tuttavia trovare dei discorsi sensati.
Se provava timidezza con i suoi coetanei, figurarsi con degli adulti.

«Mangiamo?», chiese il biondo accennandogli un sorriso furbo, «ti preparo roba buona» aggiunse come se fosse un vero intenditore.

La cucina non era altro che una minuscola rientranza dove a mala pena entravano i fornelli, due pianali di cui uno munito di una sola bocchetta per il lavandino, e uno scolapiatti.
Il resto giaceva a terra e il moro gli lanciò un'occhiata dubbiosa, scorgendo svariati piatti e utensili indispensabili.
Sperò non avesse intenzione di cucinare con quelli, altrimenti avrebbe dovuto rifiutare l'offerta prima di prendersi qualche malattia.

Schiavo del Mio amore MalatoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora