-La neve piaceva a te.-

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Rigirò le palline del bracciale tra le dita, un gesto ormai infinito, come quelle ore trascorse a fissare il nulla.
Il dolore nel petto, l'affanno nel fiato, le pulsazioni del cuore.
Tutto ciò era da collegarsi alla sua attuale tristezza? Forse, non riusciva a comprenderlo poiché non si era mai sentito così prima di quel momento.

Magari era solo la stanchezza, o almeno questo continuava a ripetersi Jacob, seduto sul letto nella penombra.
Scosse piano il capo e prese un respiro, stavolta lo trattenne per più tempo e lo rilasciò con rabbia, lo ascoltò sibilare in fondo alla gola.
Diede un'occhiata alle persiane socchiuse: il brillio del sole si infrangeva sulle pareti e, dopo l'ultima grandinata che aveva riempito il materiale di buchi, le ombre parevano piccoli insetti in movimento.

«Dio, è già l'alba?» mormorò ad alta voce, incredulo e frastornato.
Troppe ore erano trascorse dall'ultima volta in cui aveva dormito, minuti contati sulle dita in una vana attesa.

Corey era scomparso da più di un giorno, ormai.

Poteva ancora sentire il rumore dei suoi passi sul cemento, il tocco delle labbra sopra le sue, le parole sulla punta della lingua incapace di dare vita a una semplice frase.

I genitori avevano compiuto il giro del quartiere, rovesciato case, battuto su porte e porte.
Se si fosse trattato di un'altra persona, avrebbero lasciato correre.
Ma non loro figlio.
Non uno a cui importava così tanto della famiglia da mandare lettere ogni due giorni per tenerli aggiornati della sua situazione; lo stesso che aveva preso tre autobus solo per tornare al capezzale di una sorella malata.
Impossibile pensarlo lontano senza avvisare.

Jacob si passò le dita tra i capelli e fece una smorfia nel sentirli annodati per le volte in cui aveva legato e disfatto la coda, il laccio ridotto a un nastro privo di elastico.
Non conosceva nulla di quel luogo se non il tragitto fino alla fabbrica.
Se fosse uscito a cercarlo avrebbe girato in tondo con il rischio di fare un buco nell'acqua.

Ascoltò il suono della porta aprirsi di scatto e quasi gli balzò il cuore in gola, lo sentì premere e sprofondare di nuovo nel notare la figura di Tessa.
Per un millesimo di secondo aveva sperato di vedere il volto corrucciato di Corey.

Del suo Corey.

«La colpa è tua» gridò lei puntandogli il dito contro, le lacrime sul bordo degli occhi brillavano e alcune scesero ad abbracciare quelle già presenti sulle guance. «Prima della tua venuta non sarebbe mai accaduto tutto questo», proseguì con la voce spezzata, i singhiozzi rendevano il tono tremulo, «andavamo male, ma andavamo male assieme!»

Jacob gonfiò il petto e strinse i denti, le unghie avevano già scalfito la pelle del palmo a causa dei pugni serrati.
«Andavate male?», chiese tra un misto di ironia e collera, «andavate di merda. Se non fossi venuto io, a quest'ora ve ne stareste a sguazzare nella fogna in quella fottuta città oltre le mura. Questo te lo sei scordato, ragazzina?» urlò per sovrastare le grida dell'altra.

Veniva a dire che la scomparsa di Corey era da attribuire a lui?
Come si permetteva?
Il cibo nei loro piatti veniva dai suoi sforzi, nient'altro. Il tetto sulla testa, l'acqua che bevevano, il caldo della stufa.
Ogni cosa grazie a lui.
Smise di ragionare: prese forza direttamente dalla frustrazione e dall'angoscia, tramutandole in rabbia.

«Tu, piuttosto, non hai fatto un cazzo per aiutare la tua famiglia. È dovuto venire Cory a spaccarsi i muscoli in un lavoro che non poteva sostenere» proseguì e si chiese se potesse urlare più di così.
Forse sì, le corde vocali tenevano bene.

Tessa iniziò a piangere e si spalmò contro la porta, la figura minacciosa di Jacob la sovrastava di netto.

«Ehi, Ehi!»

Schiavo del Mio amore MalatoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora