Capitolo -3-

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Inspirò il fumo della sigaretta e lo buttò fuori, osservando la punta illuminare i contorni dell'aria.
Sollevò gli occhi verso l'orizzonte laddove si trovavano i campi e le recinzioni di legno.
L'alba era sorta da poco, il sole tiepido lambiva la sua pelle fredda.
La stagione del riso era appena iniziata e Steven si ritrovò a pensare ai propri genitori chini con le mani nelle acque, a coprire le piantine di terra lasciandone uscire solo una parte.

Quand'era piccolo, aveva spesso trascorso momenti nella loro stessa situazione: la schiena curva sotto il sole rovente o nel gelo più inclemente fino a farsi rovinare la pelle, screpolata talmente tanto che ne vedeva uscire il sangue e colare fino a mischiarsi con l'acqua e le lacrime per il dolore.
Sbuffò e prese una nuova boccata di fumo arrivando a sentirlo scendere nei polmoni con prepotenza.

Non era la sua strada, l'aveva sempre saputo.

Quante volte aveva corso in direzione agli archi posti a divisione della città, senza però spingersi troppo in là per paura di contaminare quelle persone che tanto la madre ammirava.
-Non provare a unire i tuoi piedi a loro, Stivi. Noi gente povera siamo malati nel sangue, potresti ammazzare anche loro. Lo schifo che portiamo dentro ci sta bene a noi ma a loro no, se sono andati a vivere per grazia così in alto. Se vuoi morire, muori da solo.-

La sua gente non sapeva esprimersi se non quasi sempre con versi, gesti e botte.
E quante ne aveva prese, Steven; le ricordava una per una, nessuna esclusa.
Suo padre lo picchiava ogni qualvolta lo scopriva ad allontanarsi verso le arcate, gli occhi ingenui e vogliosi di vivere una vita che, per discendenza, non gli apparteneva.

Ovviamente erano molte altre le ragioni per le quali sfogare la propria frustrazione sul figlio e la moglie: lo sguardo non andava mai alzato, neppure quando gli veniva rivolta la parola, altrimenti non si portava rispetto al capofamiglia; quando i campi ci mettevano troppo a crescere, la colpa era della loro incompetenza; se il male sentito nelle gambe lo faceva tremare, la causa era perché la famiglia non prendeva sul serio il lavoro, e via dicendo.

Scuse inutili per sentirsi potente davanti a un ragazzino di neppure dieci anni.

Steven portava i lividi nel cuore, li sentiva pulsare sotto gli strati di dolore di cui si era ricoperto per non soffrire maggiormente.
Come mai loro non erano stati scelti? Cosa aveva sbagliato per essere stato buttato in mezzo a tutti quegli scarti della società?
Lo meritava davvero?

Sfiorò con le dita la staccionata posandosi contro il muretto, continuando a guardare lontano.
Con il tempo, era arrivato a comprendere come la malattia tanto temuta da sua madre non fosse mai esistita.
Era qualcosa di inventato, una magra consolazione con cui la gente si riscaldava davanti al fuoco nelle notti ghiacciate.
Il male li aveva gettati in basso, non la divisione di ceti, ecco spiegato il motivo.
Una condanna giusta per il sangue corrotto.
Aveva pianto così tante lacrime certo di morire da un momento all'altro, straziato non dalla fatica ma da qualcosa che nasceva dentro di sé.

Rise amaramente e diede un ultimo tiro alla sigaretta, lanciando il mozzicone verso il pozzo, osservandolo cadere a picco e scomparire dietro il mattonato.
Che ingenuo, un ragazzino stupido, proprio come tutti.
Quando si era presentata l'occasione di poter studiare qualcosa nei libri della vicina Milly Trevis, non ci aveva pensato due volte a tuffarsi nella sua casa con la scusa di tenere compagnia al marito Gregory, invalidato da una ferita al ginocchio procurata in un incidente al mulino che lo aveva reso zoppo e malandato.

Il profumo delle pagine, la filigrana sotto le dita, l'emozione di scoprire le lettere e le immagini; ogni particolare pulsava ancora così vivido nella propria mente.
Rabbrividì e si strinse dentro la felpa.
Chiuse gli occhi e sospirò.
Il ricordo era macchiato, sporcato da una patina grigia.

Schiavo del Mio amore MalatoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora