9 - A volte ritornano

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Sistemo l'ultima bottiglia di vino dello scatolone in uno scaffale mentre Faith pulisce con un panno il bancone su cui si trova la cassa.
Un uomo sta osservando la vetrina del negozio. I suoi capelli, scuri come i baffi appena accennati e il pizzetto, sono eccessivamente sparati in aria. Si sofferma un po' sulle confetture esposte e poi va via.

«Ho finito» , mi informa la mia collega. Mi volto a guardarla. «Ed è quasi ora di pranzo» , aggiunge, sorridendo.

Il che significa che possiamo, finalmente, andare a casa. Sono passati soltanto due giorni dalla mostra e, da allora, non ho più rivolto la parola a Thomas che, fra l'altro, ha trascorso le ultime quarantotto ore chiuso nel suo ufficio.

«Glielo dici tu che abbiamo terminato il nostro turno?»

Indico con un cenno della testa la stanza del capo. Faith annuisce. La porta dell'ufficio, però, si spalanca prima che la castana possa bussare. Inizia a mancarmi il fiato quando mi ritrovo davanti Thomas. Ha le maniche della camicia bianca arrotolate fino al gomito e mi do mentalmente della stupida perché lo trovo affascinante, ma non dovrei.

«Abbiamo finito di mettere in ordine» , lo informa la mia collega.

«Perfetto» , afferma lui. «Puoi andare, Faith» , aggiunge.

«Puoi?» , chiedo, confusa.

Si volta verso di me. Socchiude le sue iridi scure. «Sì, può. Tu, invece, resti qui con me. Ho bisogno del tuo aiuto. Vieni nella mia stanza.»
Sbalordita, mi immobilizzo. Faith, allegra, prende il suo cappotto, mi bacia una guancia e poi, dopo aver gridato dei saluti, lascia l'enoteca.
Entro nell'ufficio di Thomas con le mani tremanti. È seduto alla sua scrivania e sta leggendo delle carte. Solleva per un istante la testa. «Chiudi la porta.»
Faccio ciò che ha detto, travolta dall'ansia, e poi vado a posizionarmi di fronte a lui su una sedia girevole. Mi posa davanti una pila di documenti. «Dovrei leggerli, ma non ne ho voglia. Fallo tu per me e poi esponimi il loro contenuto.»

È uno scherzo? Il mio turno è finito, ma vuole trattenermi qui per un motivo stupido. Credevo volesse parlarmi del nostro bacio mancato.

«Mi prendi in giro, Thomas?» , sbotto. Scuote il capo. «Non c'è altro che devi dirmi?» , insisto.

Incrocia le dita sotto il mento. «Ora che mi ci fai pensare, sì.» Soddisfatta, raddrizzo la schiena. «Non dovrebbe chiamarmi per nome, signorina. Sta parlando con il suo datore di lavoro, non con un amico.» Sbalordita, schiudo le labbra e spalanco gli occhi. «Per il bene comune, sarebbe necessario non essere più così in confidenza, non crede?»

Prendo un respiro profondo e poi faccio incrociare i nostri sguardi. «Perché non mi licenzi direttamente, Thomas?» Marco il tono della voce sul suo nome per ribadire il fatto che non ho intenzione di prestarmi al suo stupido giochetto. Non può ferire così i miei sentimenti. Presa dal nervosismo, accenno una risata. «Oh, aspetta, lo so. Non lo fai perché l'idea di liberarti di me non ti ha affatto sfiorato la mente. Se volessi davvero allontanarmi, non mi costringeresti a restare qui con te per farmi leggere delle stupide carte. Sei soltanto un egoista. Vuoi che ti stia accanto, ma poi, per qualche strano motivo, alzi delle barriere per separarci e non mi dai la possibilità di scegliere. Scappi dicendo che potresti aver fatto del male a qualcuno e non ti prendi nemmeno la briga di pensare che io vorrei ascoltare la tua storia. Non sono, fra i due, quella spaventata. Ti piace credere che sia così. Sei tu quello terrorizzato. Sei tu quello che non vuole che nasca qualcosa di profondo fra noi.»

Una vena mi pulsa contro la tempia. Sento le guance andarmi a fuoco. Aspetto che risponda qualcosa. Aspetto che mi dica che ho torto marcio e che si difenda. Si limita ad abbassare lo sguardo.

Gli erediDove le storie prendono vita. Scoprilo ora