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Note d'Autrice: bene, rieccomi qui a riempire gli archivi del sito con una nuova storia, come potrete notare ho tratto ispirazione da Cinquanta sfumature di grigio, vorrei che nessuno si lasciasse influenzare da ciò, la mia storia non è una copia di quel romanzo né niente di simile, ho ripreso solo alcune frasi poichè le ho reputate interessanti e senza il bisogno di essere cambiate per adattarsi alla mia storia, l'ho fatto senza alcuna intenzione di lucro o plagio, alcuni spezzoni di dialogo sono ripresi originali dal libro, in quanto per spiegare bene la trama della storia, ne avevo bisogno.
Grazie per l'attenzione. Buona lettura!


1.
Stiles si guardò allo specchio, arrabbiato e deluso: mandò al diavolo i suoi capelli, mandò al diavolo qualunque cosa lo circondasse e sembrava ritorcerglisi contro. Al diavolo la vita, che gli si era ammalata intorno, ed ora lo sottoponeva a quella prova estenuante.
Avrebbe dovuto studiare per gli ultimi esami, gli stessi che irremovibili si sarebbero presentati la settimana successiva, ed invece eccolo lì, segregato nel minuscolo bagno della minuscola stanza di suo padre, nel Beacon Hills Memorial Hospital, reparto terapia intensiva.
Cercava faticosamente di domare la sua chioma ribelle, tanto in fretta da riuscire a non perdere almeno la seconda lezione di quella mattina, tentò invano di domarli con le mani, pentendosi, la sera prima, dell'essersi addormentato con la testa tutta schiacciata da un lato, sulla scomoda poltroncina che ora giaceva miseramente in un angolo della stanza. Gli era stata fornita dagli infermieri, quando aveva comunicato loro che avrebbe trascorso la notte lì.
Contemplò esasperato il diafano ragazzo castano con gli occhi dorati, troppo grandi per il suo viso, ed abbassò le mani, stancamente.
Era inutile perdere dell'altro tempo con qui capelli ingestibili, la sua unica possibilità era cercare di inumidirli un po', in modo da poterli modellare meglio, e sperare che l'umidità della sua uggiosissima cittadina non avrebbe peggiorato la situazione.
Con i capelli impazziti provò a rendersi quantomeno presentabile, mentre si allacciava fino all'ultimo i bottoni del colletto della polo.
Aveva gli esami da preparare, una tesina da finire, il turno pomeridiano alla tavola calda, ed un padre steso in un letto d'ospedale nella stanza accanto.
Uscì dal bagno.
Quella camera aveva tutti i giorni lo stesso odore: disinfettante, garze imbevute di soluzione etilica, morte.
Suo padre era immobile nell'unico letto presente, dormiva un sonno che sembrava non appartenergli, un sonno indotto da macchinari a cui era collegato e che non producevano nessun rumore particolarmente significativo.
Era mattina inoltrata, eppure la luce nella stanza era poca, flebile ed abulica.
Sopra ogni mensola e ripiano dell'intera camera vi era almeno un ricordo di quei fiori che Stiles portava quotidianamente, con una costanza non molto lontana dall'ostinazione.
I petali erano tutti appassiti ed i gambi riversi in terra, Stiles guardò quei fiori e si vide spento come uno di essi.
Guardò la figura placidamente addormentata di suo padre, per cancellare dalla propria mente l'immagine precedente. Anche in coma era un bell'uomo, con i capelli chiari in perfetto ordine e la pelle del viso splendente, solo due profonde occhiaie violacee macchiavano quella bellezza quasi innaturale, e scatenarono un feroce moto di compassione nello stomaco del ragazzo.
L'uomo, tuttavia, non sembrava né sofferente né infelice nella sua costrizione, non mostrava nessuna emozione perché non ne provava, e quella pigra e macerante consapevolezza rendeva Stiles più sofferente ed infelice di quanto sarebbe mai potuto essere suo padre in quelle condizioni.
La figura dell'uomo sembrava misticamente scomposta ed aggiustata. Mentre lo osservava, Stiles, affondò con le mani nelle pieghe lisce delle lenzuola, lì dove perdevano la loro magra concavità, lungo i lati del corpo dormiente di suo padre.
Con un sospiro stanco, cercò di reprimere il panico e la paura, cercò di non pensare a niente, e provò a rischiararsi un po' le idee, quasi correndo ad aprire le tapparelle delle finestre. Con un fruscio la stanza si animò improvvisamente di luce, rimase per qualche secondo, con le dita delle mani, a giocare con il cordoncino delle tapparelle, era una sequenza nevrotica che sembrava a non riuscire a smettere di ripetere.
Dopo aver sollevato le veneziane, spalancò gli infissi agghindati di vetro e di cardini logori.
Era tarda mattinata, il sole era alto e fiero nel cielo, a scrutare l'intera cittadina come un occhio fiammeggiante, la torre del campanile della chiesa era alta nel cielo come un bianco braccio di donna.
Stiles si concesse qualche attimo, si prese qualche attimo per se stesso, per un secondo dimenticò suo padre nel letto lì accanto, dimenticò le lezioni che stavano per iniziare, svuotò istantaneamente la mente di tutto ciò e si sporse oltre il davanzale.
Guardò le vie gremite di gente, lì dall'alto. Le voci ed i rumori della strada non raggiungevano le sue orecchie stanche, se non in stralci scomposti, scomposti ed aggiustati anch'essi, come una canzone che il cuore di Stiles stava imparando a riconoscere, pian piano, come un intrecciarsi di sordi suoni al respiro indotto meccanicamente di suo padre.
Così si riscaldò la pelle chiara sotto il sole tiepido, e prese un profondo respiro prima di voltarsi e lanciare uno sguardo pieno d'affetto a suo padre.
Osservò apatico le lenzuola voluttuosamente attorcigliate intorno agli arti immobili dell'uomo costretto nel letto, di quella camera di nosocomio piena d'aria senza vento.
Stiles andava lì ogni giorno, per non fare nulla, a conti fatti. Le infermiere si occupavano già di tutto.
A quel punto Stiles immaginava, perlomeno, che il suo ruolo fosse quello di portare ogni giorno fiori freschi a suo padre, forse persino stare lì e parlargli, e dirgli tutto quello che prima non aveva avuto la possibilità, oppure, più semplicemente, il coraggio di dirgli.
Ma quello era un comportamento di cui non credeva l'efficacia, il parlare ai malati.
Come se fosse normale dialogare da solo, con l'ombra delle macchine alle spalle e quella del sole pigramente calante davanti. Come se la malattia aprisse davvero un diverso canale di percezione tra chi era fuori e tra chi era dentro il letto, come il corridoio che apriva un diverso canale tra la stanza e la strada.
Stiles non ci credeva, ed in quella camera, ed in quell'argine di corridoio, si sentiva abbandonato, orfano e sempre più solo.
Con la stessa maniacalità di un rituale, Stiles, faceva le stesse cose ogni giorno, entrava alla stessa ora ed alla stessa ora usciva, ed in quella mezz'ora che lui stesso si concedeva, s'adoperava nel togliere i fiori vecchi di un solo giorno per sostituirli con dei più freschi.
Apriva gli infissi e poi sedeva silenziosamente in un angolo ai piedi del letto.
Difficilmente cercava i medici, inizialmente erano stati loro a cercare lui, ora neanche più quello, ma se per caso capitava un loro fortuito incontro, e con voce pigolante lui s'azzardava a chiedere notizie quelli erano lì a guardarlo con sdegno o pena.
Erano lì a rispondergli con i loro occhi o con le loro sopracciglia sarcasticamente sollevate, che non promettevano e non dicevano mai nulla di buono, se non «aspettiamo solo che tutto questo finisca», e quel finire non trascinava mai dietro di sé un'ombra di esito positivo.
Il giorno dopo, o quella sera stessa, avrebbe dovuto portare un rasoio e radere suo padre: non aveva mai amato portare la barba incolta.
Gli accarezzò una guancia, delicatamente, e poi passò agli incavi degli occhi, alle occhiaie livide e profonde. Poi gli passò le dita tra i lunghi capelli chiari, come a voler goffamente pettinare quelli che non erano schiacciati contro il cuscino.
L'uomo non accusò nessuno di quei movimenti, inerte e remissivo come il pupazzo di un ventriloquo.
Allora, Stiles continuò con la sua solita mantra, gli sistemò accuratamente le braccia pallide e magre fuori dalle lenzuola, facendo la reversina alle coperte proprio nel modo che gli aveva insegnato sua madre, quando lui era ancora piccolo e lei era ancora viva.
Quando artigliò le dita alla sbarra metallica del letto, con un rumore cavo, una goccia di soluzione salina abbandonò la sacca della flebo e percorse il tubicino di plastica, prima di sparire invisibile nelle vene dell'uomo.
"Stiles?", mormorò, dal nulla, una voce femminile alle sue spalle, quasi spaventandolo.
Lui si voltò e la vide.
C'era un'infermiera ferma accanto alla porta, mentre con una mano la manteneva aperta.
Era la madre di Scott, con il volto liscio e bello, ed i capelli scuri arrotolati in piccoli ricci.
"Melissa", la saluto, sforzandosi di sorridere in modo tirato.
Lei, però, non sorrise di rimando; e rimase immobile a guardarlo, come in attesa che lui continuasse a parlarle.
"Io non... non mi aspettavo di trovarti qui. Questo non è il tuo reparto", le spiegò Stiles, come se fosse lui a doverle una giustificazione.
Furono interrotti da un improvviso scroscio di risatine ed applausi, insieme a piccoli gridolini di bambini entusiasti, provenienti dal reparto vicino.
Quella mattina, quella stessa scena, si era ripetuta più di una volta, e lui non era riuscito a scrollarsi di dosso l'inerzia necessaria per chiedere a qualcuno cosa stesse succedendo, ma ora Melissa era lì, e sembrava poter soddisfare ogni sua richiesta.
"Che succede?", le chiese, con voce gentile ed il sorriso sempre più tirato, purtroppo non era capace di fare di meglio.
Lei abbozzò un leggero sorriso. "Mr Hale è venuto a trovare i bambini del reparto pediatria", gli disse, eloquente, senza aggiungere troppo, come se lui avesse dovuto sapere il resto da sé, ma lui non lo sapeva, perché lui gli ultimi due mesi li aveva trascorsi senza mettere nemmeno cinque minuti il naso fuori da quella stanza.
Così lei continuò, col suo solito tono gentile e dolce: "È l'amministratore delegato della Hale Enterprises Holdings Inc, eccezionale imprenditore, nonché importante sponsor del nostro ospedale. Ha versato da poco un'ingente somma di denaro per sostenere la nostra iniziativa sui bambini malati terminali. Abbiamo impiegato nove mesi per far sì che fosse qui oggi", paziente, Melissa, gli spiegò tutto per filo e per segno, lo fece come facendogli intuire che quella fosse una giornata importante; per lui, invece, era un giorno grigio e triste come tutti gli altri.
Era sempre più in ritardo per la sua lezione, ma ormai sembrava non importagli più.
Lei, poi, sbatté le palpebre e cadde in un rigoroso silenzio, che cominciò a farsi fastidioso.
Ma solo in quel momento Stiles si rese conto che i suoi occhi scuri lacrimavano ed erano cerchiati di rosso.
Melissa stava piangendo, per lui. Per loro.
Fu così che, esitante e senza fiato, le chiese di nuovo: "Che succede?", con la paura ed il tarlo nel cuore che fosse giunto quel momento, in cui gli occhi e le sopracciglia di un medico gli avrebbero detto che stava per finire, ma mai si sarebbe aspettato che quella fine potesse realmente giungere dalle labbra di colei che per lui era stata l'unica figura più vicina al sembrare quella materna.
"Io... Io ci ho provato, ho provato a tergiversare più che ho potuto", singhiozzò la donna, ora senza lacrime, come se le avesse estinte tutte. "Ma la politica dell'ospedale è piuttosto rigida riguardo a questi aspetti", la voce di lei tremava, e le corde del cuore di Stiles tremarono con quelle fragili note.
"Quali. Aspetti?", le chiese, con la bocca e le parole d'un tratto troppo leggere per riuscire ad imprimersi nell'aria come suoni. Ma quelle parole dovevano uscire, così le scandì bene una per una, lentamente.
"Le condizioni di tuo padre si aggravano ogni giorno, e la vostra assicurazione familiare non è più in grado di coprire le spese e le cure mediche di cui necessita".
Stiles, istantaneamente, udì lo scricchiolio insopportabile del suo cuore che si frantumava, prima ancora che arrivasse il dolore. Ma dopo un istante arrivò incredibilmente tutto, e fu atroce.
A stento trattenne un urlo agonizzante, mentre sputava la voce, fuori dalla bocca, travestita con il tenore di un lamento: "Io... Io ho dei soldi da parte... Per il college e... e...".
Melissa lo interruppe, interruppe lui e le sue parole sul nascere, i feti di quei suoni - non ancora partoriti dalla sua carotide - morirono d'asfissia nel centro esatto della sua gola.
"Stiles, si tratta di molti soldi, di migliaia di dollari".
Ma lui la ignorò, bellamente, con le orecchie cucite dai respiri sospirati di suo padre. "...e poi potrei chiedere alla chiesa locale di fare una colletta e... e...", balbettò faticosamente, poi la sua voce si spense da sola, improvvisamente, senza che la donna ci andasse contro.
"Si tratta di decine di migliaia di dollari, Stiles", ed allora lui non aggiunse più nulla, perché non c'era più nulla da aggiungere, se non: "Va' via, per favore".
Così lei lo guardò coni suoi occhi contriti ed ombrati, gonfi di pianto, le sopracciglia corrugate che stendevano ombre scuresulle sue guance.
"Per favore", mormorò poi, Stiles, ed avrebbe voluto davvero mostrare una voce sicura e rigida, ma la sua non risultò altro che essere come una patetica supplica.
Melissa accolse la sua preghiera senza troppe pretese, si avvicinò al letto di suo padre, con timida disinvoltura, e mosse una rotella del carrello della flebo con il pollice. Mentre le gocce prendevano a scendere più velocemente, lei abbandonò la camera.
Vuoto persino della voglia di piangere, Stiles inforcò ferocemente il suo zainetto su per le spalle e si diresse frettolosamente verso la porta che Melissa aveva lasciato socchiusa.
Voleva solamente uscire da quel luogo, sfuggire da quel sentore di morte sempre più vicino, che gli ostruiva la gola in modo sempre più ozioso.
Aprì la porta ed inciampò, in un secondo, trovandosi disteso lungo il corridoio bianchissimo.
Annaspò, piegato a carponi e, per il contraccolpo della caduta, i libri che teneva nello zainetto gli sbatterono contro la nuca.
Si lasciò sfuggire un'imprecazione poco educata che fece ridacchiare qualcuno lì vicino.
Decisamente troppo vicino, non sembrava essere qualcuno che passava di lì per caso e si era fermato per prestargli soccorso, sembrava, piuttosto, qualcuno che era già lì. Dietro quella porta.
A fare cosa, però?
Due mani premurose giunsero improvvisamente, ingegnandosi per farlo sollevare dal pavimento.
Stiles si sentì il viso esplodergli di calore per l'imbarazzo, era ancora turbato per quello che era accaduto nella stanza di suo padre, con Melissa, e quella figuraccia non ci voleva proprio.
Maledisse se stesso e la propria goffaggine, proprio mentre quello diceva: "Va tutto bene?", ed in quel momento sembrava essere la domanda meno adatta, perché non c'era esattamente niente che andasse benenella sua vita.
Quella voce gentile, tuttavia, stuzzicò la sua curiosità, sembrava essere una voce giovane, che non si addiceva affatto al lungo cappotto scuro che si trovava davanti al naso.
Guardandolo così, dal basso, Stiles lo avrebbe associato ad un uomo di mezza età, ma il tono di quella voce era stato chiaro, ed il suo soccorritore non doveva essere molto più vecchio di lui.
Così, esitante e curioso, si fece forza ed alzò lo sguardo.
La prima cosa che vide fu un profondo cipiglio posto in mezzo alle sopracciglia corrucciate, anche quello sembrava voler dire va tutto bene? Poi rimase letteralmente senza fiato, di fronte a quel viso giovane.
Giovane e bellissimo. Di una bellezza crudele, come solo un uomo incontrato in una circostanza del genere poteva essere. Era una bellezza che feriva dentro, e Stiles era già vulnerabile.
L'uomo era alto, con le spalle larghe di possanza e la vita sottile sottile. Indossava un elegante completo grigio, una camicia bianca ed una cravatta nera. Perfettamente stirati, senza l'ombra di una sgualcitura.
Aveva una ribelle chioma nera corvino ed intensi, luminosi, luminosissimi, occhi verdi, che lo scrutarono con morbosa apprensione.
"Gr-Grazie", balbettò Stiles, estremamente imbarazzato, una volta che riuscì a tirarsi in piedi.
L'uomo piegò la bocca in una smorfia, e la ruga in mezzo alla sua fronte si fece più marcata, sembrava seriamente preoccupato e lui non riusciva a spiegarsi il perché di tutta quell'attenzione.
"Vuole sedersi?", gli chiese poi l'uomo, insistente, inquieto.
Il ragazzo ci mise qualche istante per ritrovare la propria voce, così si limitò a scuotere la testa in segno di diniego, nel frattempo.
A quel punto, e senza troppe cerimonie, l'uomo gli porse da stringere una mano dalle dita affusolate ed eleganti. "Sono Derek Hale", gli disse, con ostentata sicurezza ed un sorrisino affascinante sulle labbra carnose.
Pronunciò quelle parole in modo strano, come se da lui si aspettasse qualcosa di più, del suo semplice nome, ma in quel momento, oltre presentarsi, non gli venne in mente di dire nulla di più: "St-Stiles Stilinski", mormorò, piano piano, e non per vergogna ma per fatica.
Confuso ed un po' stordito, Stiles allungò timidamente la propria mano verso quella dello sconosciuto, di Derek Hale, per poter concludere le presentazioni.
Quando le loro dita si toccarono, ed un brivido inebriante percorse per intero il corpo del ragazzo, l'uomo parlò di nuovo: "Molti mi conoscono come Mr Hale, ma lei può chiamarmi più semplicemente Derek", sibilò l'uomo, schioccando la lingua contro il palato.
Quello schiocco secco si perpetuò nelle orecchie di Stiles, e fu in quel momento che capì chi era l'uomo che era lì di fronte. Che stava stringendo la sua mano.
Gli ritornarono in mente le parole di Melissa, che lo avevano ferito tanto, e gli si squarciò il cuore solo al ricordo:"Mr Hale è venuto a trovare i bambini del reparto pediatria" [...] "È l'amministratore delegato della Hale Enterprises Holdings Inc, eccezionale imprenditore, nonché importante sponsor del nostro ospedale. Ha versato da poco un'ingente somma di denaro per sostenere la nostra iniziativa sui bambini malati terminali. Abbiamo impiegato nove mesi per far sì che fosse qui oggi".
Guardò Derek e senza che lo volesse realmente i suoi occhi si sgranarono, e con loro si aprì anche un luminoso sorriso saccente sul viso dell'altro.
Fu in quel momento che Stiles capì che quell'uomo da lui voleva solo riconoscenza, e non solo perché gli era andato in soccorso, ma per chi era, così lo reputò spocchioso ed arrogante, e lui non era veramente la persona adatta per allietare qual grasso ego multimilionario.
I lineamenti del suo viso si indurirono, mentre il suo cuore accelerava i battiti.
Derek dovette accorgersi del suo cambiamento, perché Stiles sentì i suoi occhi glauchi scrutarlo con minuziosa attenzione.
"La ringrazio, Derek, ma ora devo proprio andare o farò tardi alla mia lezione", biascicò Stiles, con poca convinzione, intenzionato solo ad allontanarsi da quell'uomo che in così poco tempo era riuscito a mettergli addosso così tanta soggezione.
Decisamente non gli andava di essere il passatempo momentaneo di un uomo simile, mentre suo padre stava morendo a nemmeno dieci metri da lui.
Le parole di Melissa sembravano aver descritto una persona di buon cuore, con una vocazione filantropa ed un debole per i bambini. A Stiles, invece, un brevissimo scambio di battute era bastato per fargli capire che quell'uomo aveva solo un debole per se stesso.
Era esattamente il tipo di persona che non gli andava a genio.
Una luce divertita illuminò quei grandi occhi verdi. "È già in ritardo per la sua lezione, Mr Stilinski. Affaticarsi tanto per raggiungerla non le servirà a niente, per il suo arrivo sarà già terminata e lei avrà percorso solo tanta strada per nulla", spiegò l'uomo, pragmaticamente, con la voce sottile pesante e ricca di ironica saccenza.
La stessa che donava una luce più fulgida e seducente a quegli occhi glauchi.
A Stiles andò la saliva di traverso e non riuscì a spiegarsi come quell'uomo potesse aver capito così tanto di lui in così poco tempo. Mentre avvampava per l'emozione, cercò di raddrizzare la schiena e le spalle nello sforzo di sembrare più alto ed autorevole.
"Le va un caffè, Mr Stilinski?", disse lui, semplicemente, ora con tono affabile, gentile, come se avesse colto la reticenza di Stiles nei suoi confronti e stesse cercando di scavalcarla.
Il ragazzo, nonostante si stesse sforzando, non riuscì a decifrare quell'espressione impassibile, blanda, educata.
Gli bruciarono di più le guance, quando si ricordò dell'unico dollaro che aveva nelle tasche e che gli sarebbe servito davvero a poco.
Derek sembrò percepire qualcosa di più su di lui, e piegò la testa di lato, mentre lo osservava con interesse. "Offro io, ovviamente", sottolineò, con vellutata eloquenza, facendo arrossire Stiles di rabbia ed imbarazzo.
Oltre che leggere i pensieri nella sua testa, quell'uomo, adesso, sembrava persino capace di leggere nelle sue tasche.
Derek non disse più nulla ed aspettò con pazienza, Stiles lo guardò sempre più imbarazzato, e confuso, mentre cercava di capire perché un uomo di quel rango si ostinasse tanto a volergli offrire un caffè.
Gli aveva fatto così tanta pena?
In quel momento, Stiles, si vergognò terribilmente della giacca sportiva blu marina che teneva mollemente poggiata su un braccio, della polo azzurrina, i pantaloni cargo color beige e gli scarponcini marroni da trekking, si sentiva decisamente di non poter reggere il confronto con quell'uomo maestoso.
"Glielo offrirei volentieri al distributore nell'atrio, ma lì il caffè è semplicemente disgustoso. Spero che non le dispiaccia dover arrivare fino al chiosco".
A quel punto Stiles non sapeva seriamente se gli dispiacesse o no, voleva solamente uscire di lì.
Quelle mura bianche e smorte cominciavano a stargli troppo strette, lo soffocavano.
Ancora incapace di parlare, Stiles, annuì.
"Forse dovrebbe indossare la giacca, è appena cominciato a piovere", mormorò Mr Hale, con la sua rinnovata apprensione ed uno sguardo intenso, senza più traccia di antipatico umorismo.
E lui, veramente, non si spiegava perché quell'uomo mostrasse tanto interesse nei suoi confronti.
Lo guardava con quella luce strana negli occhi, come se fosse sinceramente in ansia che potesse prendere un po' di pioggia.
Con la sua solita goffaggine e sempre più imbarazzato, Stiles cercò di mettere la giacca, nonostante avesse lo zaino ancora abbarbicato sulle spalle.
"La aiuto io", disse solo Derek, poi gli strappò letteralmente la giacca di mano, mentre Stiles poggiava lo zainetto a terra, per aver finalmente le spalle libere.
Così l'uomo gli tenne sollevata la giacca, mentre lui imbarazzatissimo cercava di centrare i buchi delle maniche con le braccia.
Una volta che ebbe indossato la giacca Derek gli poggiò le mani sulle spalle, come per lisciarne il tessuto, ma Stiles sobbalzò, avvertendo quel contatto come sulla sua pelle nuda.
Stranamente, Derek, non approfittò della sua reazione imbarazzata e non disse nulla.
Stiles amò quel silenzio più di qualunque altra cosa successa in quella mattinata.
Arrivarono agli ascensori, in rigoroso silenzio, lui sempre più nervoso e quell'uomo incomprensibile ora controllato e serio.
Quando le porte si aprirono remissive Stiles sfrecciò dentro l'ascensore, in un modo che fece ridacchiare Derek mentre lo raggiungeva, molto più pacato.
Il ragazzo lo guardò turbato, interdetto.
Che cosa voleva quell'uomo da lui?
Arrivarono al chioschetto senza parlare, mentre si infilavano in mezzo ai tavoli brulicanti di persone si guardarono l'un l'altro con la coda dell'occhio, come di nascosto, come se persi nel formulare quello che si sarebbero detti dopo.
Si sedettero nello stesso istante, come se lo avessero deciso di comune accordo.
Il corpo di Derek risultò essere come una presenza massiccia, una volta che si fu tolto il cappotto e la giacca del completo.
Così, seduto di fronte a Stiles, con i gomiti poggiati sul piccolo tavolo e le maniche della camicia arrotolate lungo l'avambraccio, quasi fino all'incavo con il gomito.
Il pensiero di suo padre, le cui carni erano quotidianamente macerate dal coma, vibrava debolmente nell'aria, come la nota di un pianoforte scordato, persa nell'intraprendenza di un'intera orchestra.
Derek lo osservava silenziosamente, e non sembrava avere l'intenzione di parlare neanche quando arrivarono i loro caffè, si limitò a guardarlo, sostenendosi il mento con una mano, senza degnare di uno sguardo il proprio caffè.
Per recuperare un po' di coraggio Stiles bevve due o tre sorsi di bevanda bollente, tutti d'un fiato, e tossicchiò rumorosamente, con il volto in fiamme per lo sforzo e la vergogna.
"M-Mi scusi", farfugliò, temendo di avergli sputato un po' di caffè in faccia. "Ehm... non sono abituato a bere bevande così forti".
"Può prendere qualcos'altro, Mr Stilinski. Può prendere tutto quello che vuole", disse l'uomo, quasi con arroganza. Come se non potesse fare a meno di dover dimostrare sempre chi fosse e cosa potesse permettersi.
Stiles si era già pentito di aver accettato quell'invito, sarebbe dovuto rimanere dei suoi propositi, andare a lezione e crogiolarsi nel suo patetico dolore.
"Lei sembra un maniaco del controllo, Derek", sputò fuori Stiles, non riuscendo più a trattenersi, e l'uomo sbarrò gli occhi, sorpreso, non si aspettava una risposta tanto audace e diretta da parte sua.
Il fatto, però, era che quel comportamento cominciava a dargli sui nervi e Stiles non lo sopportava davvero più, era stupito di se stesso e di come non fosse ancora esploso ad urlargli in faccia.
Eppure, più che offeso, cosa che era nell'intento di Stiles quando lo aveva volutamente chiamato maniaco, Mr Hale parve compiaciuto.
Difatti, si umettò le labbra con la punta della lingua, in modo molto sensuale, e sussurrò: "Oh, io esercito il controllo su tutto, Mr Stilinski", lasciando Stiles senza parole.
Il suo cuore accelerò improvvisamente i battiti ed il suo viso paonazzo lo stava facendo vergognare tremendamente.
"Inoltre, se nelle proprie fantasie segrete ci si convince di essere nati per dominare, si acquista un potereimmenso", ed in quella semplice frase Derek si era descritto e Stiles lo aveva capito.
Il fatto che volesse dominare e guardare tutti dall'alto Stiles lo aveva capito subito, dal momento che lo aveva incontrato, da quando Derek lo guardava dall'alto dei suoi piedi stabili e lui era vergognosamente inciampato a terra.
"Lei pensa di avere un potere immenso?", lo provocò Stiles, cercando di innervosirlo quasi quanto quell'uomo innervosiva lui, voleva mettere in forse le sue certezze e se non farlo crollare, perlomeno, vacillare.
Ma, ovviamente, non fu così.
Anzi, Derek gli rispose in modo molto diretto, con fare esperto: "Ho più di quarantamila persone alle mie dipendenze, Mr Stilinski. Questo mi dà un certo senso di responsabilità... di potere, se preferisce", questa volta, fu Derek a provocarlo.
E Stiles incassò il colpo, arrossendo per l'ennesima volta. Imbronciò le labbra, sconcertato e colpito da quella mancanza di umiltà. Eppure... "Ho saputo che ha versato da poco un'ingente somma di denaro per sostenere l'iniziativa dell'ospedale sui bambini malati terminali. Sembra molto filantropico. È una cosa che la appassiona... preoccuparsi di distribuire cure ai più bisognosi?", gli chiese, esitante.
Voleva cercare di capire chi fosse realmente quell'uomo, e cosa volesse da lui. Il perché di quell'invito, e Stiles era certo che si estendesse al di là dei suoi affari, eppure, per ora, quello sembrava il loro unico argomento di conversazione.
Attesa impaziente la risposta dell'altro, comunque.
Derek inarcò un sopracciglio, con fare scettico, e sbuffò, quasi seccato. "È solo una questione di immagine e di affari".
Quelle parole arrivarono per Stiles come una stoccata, quell'uomo sembrava seriamente freddo ed insensibile.
Il cuore gli si gonfiò di dolore, quella non era davvero la persona più adatta da mettersi vicino, soprattutto in una situazione come la sua.
Evidentemente, a Derek, i malati non interessavano tanto come voleva far sembrare a tutti.
Era solo una questione di immagine e di affari.
"Conosce Carnegie, Mr Stilinski?", gli chiese poi, forse per sviare l'attenzione da ciò che si erano appena detti, e senza nemmeno aspettare la sua risposta, da bravo maniaco del controllo, continuò: "Un uomo che acquisisce la capacità di prendere pieno possesso della propria mente è in grado prendere possesso di qualsiasi altra cosa a cui abbia diritto. Sono un tipo molto particolare, motivato. Mi piace avere il controllo, di me stesso e di quelli che mi circondano".
"Quindi vuole possedere le cose?", incalzò Stiles, illudendosi seriamente di riuscire a mettere in difficoltà quell'uomo impeccabile.
Derek alzò le spalle, per nulla turbato dalle sue domande dirette. Anzi, sembrava quasi aspettarsele.
"Voglio meritarne il possesso, ma sì, alla fine, voglio possederle".
Qualcuno, improvvisamente, si schiarì la gola accanto a loro, interrompendoli.
Stiles sbirciò verso sinistra, per capire chi fosse, era un attraente afroamericano con corti dreadlocks, alto e ben vestito.
"Cosa c'è, Boyd?", sibilò Derek, seccato per quell'interruzione.
In quel momento a Stiles tornarono in mente i loro caffè, praticamente nemmeno toccati, ormai freddi.
"Hale, scusami se ti interrompo, ma hai un appuntamento tra pochi minuti", disse l'uomo di colore, Boyd, con voce sicura, confidenziale, per nulla intimidita da chi aveva di fronte.
Evidentemente sembrava contrastare molto bene l'aura maniaca del controllo di Derek.
Derek alzò le spalle, come se le parole dell'uomo avessero poca importanza, e lo guardò con il sopracciglio sempre più inarcato: "Mi sembra evidente che io e Stiles non abbiamo ancora finito. Annulla il prossimo appuntamento".
Stiles sussultò, sorpreso, sentendosi chiamare per nome per la prima volta da quell'uomo, e le sue guance avvamparono ancora un po'.
Boyd, nel frattempo, prima guardò Derek, esitante, poi si voltò verso Stiles, con gli occhi stretti, e gli rivolse un sorriso indecifrabile.
Quando si allontanò, Derek, era tornato al Mr Stilinski: "A questo punto immagino che lei voglia sapere perché è qui, Mr Stilinski".
"È una domanda?", lo provocò Stiles, quasi girandoci intorno, come se ora che stava, finalmente, per ottenere quello che voleva in realtà non lo volesse più. Quando Derek gli avrebbe detto cosa voleva da lui, in un modo o nell'altro, la loro conversazione si sarebbe estinta, ed a quel punto Stiles non era più di certo di volerlo.
A quel punto non era più certo di niente.
Derek ridacchiò, compiaciuto dalla sua provocazione.
"Mi scusi", mormorò, educato, poi aggiunse: "Vuole sapere perché è qui, Stiles?", di nuovo pronunciò il suo nome.
Il ragazzo sentì il cuore martellargli nel petto e le guance prendere fuoco. "Sì", disse solo.
L'uomo piegò la testa di lato. "So che ha bisogno di soldi, Mr Stilinski", esordì Derek, con calma glaciale.
Stiles sussultò, per due motivi, perché Derek era tornato a chiamarlo per cognome e perché si sentiva umiliato. Perché Derek non doveva e, soprattutto, non poteva sapere quelle cose.
Impallidì.
Stiles, così, istintivamente spezzò quella lastra di reciproca cordialità che li separava e che li manteneva entrambi ai loro posti.
"Hai... tu hai origliato", gli diede del tu e non gliene importò.
Derek storse la bocca e lo soppesò, silenziosamente, con lo sguardo.
"È questo che intende quando dice che le piace avere il controllo sulle persone che la circondano?!", lo aggredì Stiles, con voce alta, balzando in piedi dalla sedia in un moto improvviso di adrenalina.
Derek non si scompose affatto, a differenza del suo gorilla Boyd, che era sul punto di precipitarsi per accertarsi che fosse tutto regolare.
Derek lo bloccò, con un gesto secco della mano, e l'energumeno, esitante, rimase al suo posto.
"Oh, io esercito il controllo su tutto, Mr Stilinski".
A quel punto Mr Hale assottigliò le palpebre, sembrava molto seccato, come se quell'improvvisa reazione di Stiles, quella fuoriuscita dagli schemi, dal controllo, non gli fosse piaciuta affatto.
"Mi creda, Mr Stilinski, non era mia intenzione origliare, ma i suoi piagnucolii erano talmente acuti che mi è stato impossibile non ritrovarmi coinvolto!", sferzò, gelido e crudele, con un sorriso pesantemente sarcastico, e quelle parole colpirono Stiles in pieno petto.
Gli tolsero il fiato, letali, tanto che ricrollò sulla sedia dietro di lui, mollemente.
"Comunque, come le stavo dicendo, so che ha bisogno di soldi, ed io sono disposto a dargliene, quanti ne vuole, senza alcun limite", incalzò Derek, con tono severo, approfittando del fatto che Stiles fosse momentaneamente inerme.
La sua testa ronzava rumorosamente per l'eccesso di emozioni e per l'irritazione.
Si guardarono intensamente negli occhi, senza che nessuno dei due si decidesse a toccare il proprio caffè.
La bocca di Derek si strinse in una linea dura, ora sembrava lui ad essere arrabbiato.
Il ragazzo lo guardò per qualche attimo senza espressione, e nel mentre la sua mente gli rievocò l'immagine di suo padre, lì, in quell'ospedale, rintronato dai farmaci. Poi socchiuse gli occhi, leggermente abbattuto. Quando li riaprì, insieme a quell'immagine, sembrò avere una nuova, incrollabile, convinzione.
Avrebbe fatto di tutto per salvarlo. Per tentare di salvarlo, perlomeno.
"Con quale percentuale d'interessi?", provò a chiedere Stiles, umiliato, le vene del collo improvvisamente gonfie, come se stesse per piangere.
Si sentiva debole e stordito.
Quando suo padre era stato ricoverato il primo giorno, aveva pianto fino ad addormentarsi, poi, da quel momento, non lo aveva più fatto, erano due mesi che non piangeva, ed ora quel bolo di condensato e dolori trattenuti sembrava incredibilmente difficile da ingoiare. I suoi condotti lacrimali, rimasti chiusi, sporchi, pieni e bloccati per tutto quel tempo improvvisamente si aprirono, e tutta la roba accumulata in quei giorni spinse prepotentemente per uscire.
Derek scosse la testa. "Oh, non voglio che lei mi restituisca quello che mi deve in denaro, Mr Stilinski".
Stiles non ribatté nulla, in attesa che l'altro continuasse, e nel frattempo ripassò mentalmente le istruzioni per respirare.
Derek lo guardò, serio per la prima volta. "Voglio che tu faccia sesso con me, Stiles".

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