Il funerale si svolge nella chiesa del Quartiere, una costruzione avveniristica progettata da un architetto avanguardista quando ancora si puntava su questi luoghi fuori dal mondo.
La cerimonia è semplice e senza fronzoli, organizzata velocemente perché non c'erano ultime volontà da rispettare - quando non hai nemmeno quarant'anni e sei perfettamente in salute non ci pensi alle ultime volontà - e a don Fernando, mentre legge il sermone, viene quasi da piangere, don Fernando che se l'è vista crescere sotto gli occhi, a sbucciarsi le ginocchia sul terreno polveroso dell'oratorio.
Era una bambina irrequieta, Laura, sempre sporca e piena di lividi e ferite che non facevano in tempo a rimarginarsi, sempre pronta ad azzuffarsi con i maschi, già all'epoca affascinati da quella figura magra e minuta che non li temeva, anzi li sfidava.
Nostra madre quasi non si regge in piedi dal dolore: è sempre stata debole, sia nel fisico che nel carattere, ma adesso che è anche in avanti con gli anni è un niente che parla e cammina.
Nostro padre, accanto a lei, è un metro e ottanta centimetri di sensi di colpa e rabbia per quella figlia scapestrata che non gli ha mai dato retta.
Non c'è mai stata armonia nel loro matrimonio, ma oggi, nella sofferenza che li accomuna, sembrano quasi uniti.
Oltre a loro ci sono Ottavio e Rosa Leonardi, i genitori di Antonio e del fratello minore Claudio, mio coetaneo, e Iolanda Baschetti con i figli Enrico e Anna.
Non ci sono tutti, ma credo proprio che stavolta Laura si dovrà accontentare.***
Sono in quattro a portare la bara, alla fine della cerimonia: nostro padre, Giovanni, Antonio e Claudio.
Troppi, secondo me.
È sempre stata una bambina inquieta, troppo magra e troppo cattiva per meritare una simile importanza.
Dietro di loro sfilano parenti, amici e conoscenti, tutti vestiti di nero, tranne i figli di Laura e i miei: ma a tredici anni non ce l'hai un vestito da funerale, è un'età troppo verde per tenere in conto la morte.
Sono belli i miei nipoti Luisa e Mario, assomigliano sia a Laura che a Giovanni: hanno i capelli scuri di lei e gli occhi chiari di lui; Cinzia e Maurizio, i miei ragazzi, hanno la premura di non lasciarli soli un attimo.
Resteremo qui per qualche giorno, il tempo di vedere alcune cose in famiglia.
Per ora siamo sempre stati a casa nostra, a via Ottaviano, ma ci stabiliremo temporaneamente dai miei, almeno fino a quando durerà questa storia.***
Non tornavamo nel Quartiere dall'ultimo Capodanno - sono ormai passati quattro mesi - ma se chiudo gli occhi mi sembra di vederlo: il fumo dei comignoli, delle auto, delle moto e dei mezzi pubblici; l'odore di cibo e di alcol, di piscio e di droghe, di sangue e d'immondizia; i panni stesi impiccati ai balconi microscopici dalle massaie.
Eravamo considerati il peggio del peggio in città: sembrava che ce l'avessimo scritto in faccia da dove venivamo; la gente ci riconosceva immediatamente e nessuno ci dava un lavoro o ci affittava una stanza, perche noi eravamo i nostri palazzi con le facciate sbeccate; eravamo i nostri negozi di copertura delle attività criminali; eravamo le nostre strade sporche dove giocavamo da bambini, di ogni nazionalità e figli di genitori troppo impegnati per seguirci, tra i sassi e le siringhe, su quel terreno fertile per le malattie come il tifo e la broncopolmonite, il tetano e la leptospirosi, e quando ci ammalavamo era un miracolo se ci accettavano negli ospedali pubblici, dove finivamo prede di medici saccenti e annoiati o di ciarlatani che promettevano cure miracolose spillando soldi alle nostre famiglie; molti di noi venivano ricoverati a cinque anni e ci rimanevano fino agli undici, senza saper né leggere né scrivere, senza prospettive e senza sostegni, senza niente di niente.
La nostra generazione era come una pianta cresciuta al buio, tutti accartocciati su di un destino che non potevamo né volevamo cambiare.
Laura invece a tutto questo non ci stava: ci diceva sempre che il Quartiere era come una cappa, grigia e soffocante, che appiattiva le nostre esistenze verso il basso, ma noi eravamo scemi e ci andava bene così.
Ricordo ancora il momento esatto in cui pronunciò questa frase davanti a me, Antonio, Claudio e i nostri amici, a otto anni nel cortile interno dei giganteschi palazzi dove abitavamo, a otto anni, quando non si dovrebbe pensare a niente di brutto o di grave: ma era un lusso che non potevamo permetterci, lì la vita era dura e dovevamo diventare adulti in fretta.***
Ma la colpa non è completamente dell'ambiente circostante, e non lo dico per scaricare la coscienza: la verità è che di noi non gliene è mai fregato niente a nessuno.
Man mano che si andava verso est, prima di arrivare al vero est romano, quello sconfinato, imponente, drammatico, esplosione della campagna laziale, c'era un est cementificato, più vicino e meno verde, meno azzurro, meno vasto, un est che non si schiantava mai contro il cielo.
Fu qui che orde di costruttori - i palazzinari, come li chiamavamo noi - vinsero appalti su appalti per creare, su ex borghi agricoli e terre di nessuno, i quartieri del futuro: solo che questo futuro non ce l'hanno mai dato, o meglio, ce l'hanno tolto prima che potessimo vederlo.
Il Quartiere - che magari ha anche un nome, ma è questa la parola che mi riecheggia nelle orecchie fin dalla nascita - aveva dei punti di riferimento ben precisi: vi si accedeva da un tratto dell'autostrada che noi chiamavamo il Viale dei morti ammazzati, dove le macchine correvano talmente veloci da tranciare i pedoni senza neanche guardarli in faccia.
I casermoni, immensi complessi di appartamenti appiccicati l'uno all'altro, si sviluppavano sia verticalmente che orizzontalmente, avevano le facciate rivolte verso ovest, verso il resto della città e del mondo - ma era un paradosso e uno sfottò visto che la maggior parte degli abitanti non aveva mai messo il naso fuori dal Quartiere - ed erano tutti uguali, tant'è che spesso sbagliavamo portone e ci perdevamo.
Sulla piazza principale si affacciavano i negozi: il bar Martini, di proprietà della nostra famiglia; l'edicola, di cui era titolare il padre di Antonio e Claudio; il ferramenta, che apparteneva ai Santini, la famiglia di Giovanni.
Poco distante c'era la chiesa - intitolata a quale santo non lo sapevamo, per noi era soltanto la chiesa - e noi frequentavamo l'oratorio sotto la supervisione di don Fernando e della perpetua Celeste.
Eravamo un'accozzaglia di gente senza particolari distinzioni politiche e ideologiche: democristiani e brigatisti, simpatizzanti per gli Stati Uniti e per l'Unione Sovietica, erano arrivati a fraternizzare col "nemico" per sopravvivere alla legge del più forte che imperava quaggiù.
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La bambina cattiva [Saga del Quartiere Anceschi]
General FictionQuesta è una storia che difficilmente può essere raccontata senza rifletterci sopra, una storia combattuta e sofferta, di menti eccelse, di luoghi problematici e d'amore. È la storia di Laura, del suo rapporto con Antonio, della sua voglia di cambi...