CAPITOLO UNDICI

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Entro in casa e vado direttamente in camera mia, le parole di Jacob mi hanno fatto male, non avrebbe dovuto dire quelle cose non sapendo cosa ho passato e io non dovrei prendermela tanto. Non capisco, non mi è mai fregato nulla di quello che dicevano gli altri, perché ci son rimasta tanto male per le parole di quel coglione?
Le lacrime continuano a scendere lungo le mie guance, i suoi insulti continuano a rimbombarmi nelle orecchie come un disco rotto e iniziano così a venirmi in mente tutte le volte in cui i miei genitori, o i professori, mi ripetevano che sarei stata un fallimento e che avrei rovinato sempre tutto e tutti. Fa male sentirselo dire e sapere che è vero. «per i tuoi genitori eri un peso», «anche le persone che ti stanno più vicine ti lasciano» mi ha urlato in faccia la persona che, pur non sapendo nulla di me, mi ha descritta alla perfezione. Più ci ripenso e più un dolore lancinante mi cresce dentro. Il solito fottutissimo dolore che mi ero promessa di non provare più per persone di merda.
Prendo dal cassetto dei farmaci il flaconcino con dentro gli antidepressivi. Li ho sempre presi per curare l'ansia e la depressione causata dalla morte di Nicholas, mi facevano sentire meglio. Ne ingerisco una sperando faccia effetto il più velocemente possibile.
I minuti passano, ma la pastiglia non fa effetto, le sue parole mi fanno sempre più male e il dolore inizia a divorarmi. Pian piano sento l'aria mancare e il cuore battere a mille, le lacrime non cessano si scendere, la testa inizia a girare e sento la necessità di gridare. Mi siedo sotto la finestra aperta per cercare di riprendere aria, ma con scarsi risultati. D'un tratto la porta si apre e James e Dylan entrano nella stanza. Mi guardano e, in una manciata di secondi, il loro viso passa dalla solita espressione felice e spensierata al preoccupato, quasi terrorizzato. «Ha un attacco di panico, dobbiamo portiamola fuori» afferma Dylan, mio cugino annuisce e mi aiuta da alzarmi. In casa ci sono anche Liam e Jacob che stanno tranquillamente giocando alla play senza curarsi di ciò che sta succedendo. Arrivati in giardino mi fanno sedere su una delle sdraio cercando di farmi distrarre pensando a cose belle, ma in testa ho solo le parole di Jacob. «Tu rientra, io sto qui con lei fino a quando non si calma. Se fanno domande evitale» dice Dylan a mio cugino che entra in casa preoccupato. «Vuoi dirmi cosa è successo? Di me ti puoi fidare, sono una tomba» mi dice dopo che mi sono un po' calmata e ho smesso di piangere. «Io e Jacob abbiamo litigato, la ragazza mi ha dato della puttana, lui le ha dato corda ed io ho risposto male. Quando ci ha riaccompagnati qua mi ha fatto stare in macchina per parlare, ma alla fine mi ha gridato contro dicendo che sono un peso, una troia, che è normale se non ho amici dato che li tratto di merda e che non mi dovrei stupire se poi mi lasciano come ha fatto il mio migliore amico» racconto brevemente ciò che è accaduto prima che mi chiudessi in camera. «Luna, probabilmente neanche le pensa queste cose, le avrà dette perché era arrabbiato, ma non perché le pensa.» «Il problema è che ciò che ha detto è vero, io non ho nessuno, ma non doveva dire quelle cose sul mio migliore amico, non sa nulla di quello che è successo con lui e non gliene deve importare nulla. Sinceramente non so neanche perché ho reagito così, cioè, di solito non me ne frega niente. Non capisco perché questa volta è stato diverso.» cerco di spiegarmi e Dylan annuisce comprensivo. È strano potersi confidare liberamente con una persona dopo tanto tempo.

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