Capitolo 39 ‹‹ la figlia dei Park››

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Il tempo passava, il tichettio dell'orologio appeso alla parete color panna della cucina riempiva quello spazio vuoto e silenzioso, fin troppo silenzioso, scandendo lo scorrere del tempo minuto per minuto e il mio sguardo si spostava senza sosta dall'orologio alla porta d'ingresso.

Erano passati una ventina di minuti da quando avevo sentito la voce di Youngjo e lui non era ancora tornato, sapevo che stesse bene così come sapevo che anche gli altri stessero bene, però, le parole di mio padre, quella minaccia velata dalla sua crudeltà risuonavano ancora nella mia mente; fresche e vive le sentivo prendere voce nella mia testa ad un volume talmente alto da stordirmi farmi quasi venire il mal di testa privandomi dell'unica cosa che volevo fare: calmarmi.

Perché io avevo bisogno di calmarmi, avevo bisogno di tornare a respirare normalmente senza dover trattenere il fiato a ogni respiro, avevo bisogno di sentire il ritmo del mio cuore tornare alla sua velocità regolare, avevo bisogno di vedere i ragazzi, di abbracciarli uno ad uno, di vedere mia figlia e stringermela in braccio, avevo bisogno di vedere Youngjo e assicurarmi che stesse veramente bene.

Avevo bisogno di un po' di pace.

Le dita delle mie mani presero a sanguinare, talmente erano state dilaniate dai miei denti che presero rosicchiare le fastidiose pellicine. Numerosi furono i tentativi di Seoho di farmi smettere, ma io non lo ascoltavo o almeno lui era convinto che non lo stessi ascoltando, in realtà io lo sentivo chiaramente, la sua voce arrivava chiara alle mie orecchie ma il mio cervello aveva smesso di comunicare con il mio corpo.

Il mio sguardo si fece più cupo, perso nel vuoto più profondo, nell'oscurità più buia, in una dimensione in cui ero sola insieme ai miei demoni in cui il viso di mio padre mi perseguitava e la sua voce riecheggiava come un'eco in quello spazio vuoto e cupo. Quella che aveva le mie sembianze non ero io, era solo un guscio esterno privo di vita, immobile, congelato dal tempo nell'istante in cui la voce che un tempo mi cullava fino a che i miei occhi, troppo pesanti a causa della stanchezza, si chiudevano, che mi svegliava alla mattina, che mi raccontava le favole della buona notte aveva osato pronunciare quelle parole così crudeli da farmi accapponare la pelle dalla paura, perché lui avrebbe fatto realmente di tutto per giungere ai suoi scopi e io sapevo che aveva le palle e i mezzi per farlo.

La stessa voce che definivo rassicurante e rasserenante, ora mi stava minacciando di portarmi via l'unica persona veramente importante per me, privandomi della mia unica ragione di vita e della forza che mi aveva fatto aprire gli occhi ogni santo giorno di quei sei anni.

<< Sky!>> sobbalzai all'improvviso aumento del tono di voce di Seoho, ero rimasta bloccata in quel mio trance che nemmeno mi accorsi della sua voce che richiamava la mia attenzione.

<< sono tornati>> di quel semplice tempo verbale composto, le mie orecchie colsero solamente una parola: tornati.

Erano davvero tornati? Youngjo e gli altri?

Con un balzo mi alzai dalla sedia che, ne ero sicura, aveva ormai preso la forma del mio sedere e corsi fuori dalla cucina incontrando, subito, gli occhi di Youngjo i quali si incastonarono come tessere di un mosaico nei miei.

Le mie braccia si allacciarono dietro al suo collo, il mio viso affondò nel suo collo e le mie narici tornarono a respirare il profumo della sua pelle che profumava della sua colonia preferita; il ritmo del mio cuore tornò alla normalità come anche il mio respiro.

Mi separai dall'abbraccio afferrando il suo viso con le mani scrutandone ogni centimetro per vedere qualche segno che sia un graffio, un taglio, un livido ma non c'era niente, la sua pelle del colore della porcellana, priva di imperfezioni non era stata rovinata era ancora perfetta, liscia e morbida come quella di un neonato e io tirai un sospiro di sollievo davanti all'evidenza che quello che mi disse al telefono fosse vero: lui stava davvero bene.

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