Capitolo 44 (IV). Una tomba vuota

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Non ebbe mai problemi di condotta e non dovette mai alzar la voce; il massimo dell'irritazione che dovette gestire fu per qualche compito casualmente dimenticato a casa ma di certo non c'erano né problemi di violenza verso i professori né verso i compagni come in certe scuole pubbliche di periferie degradate, anche perché le altre professoresse, per la maggior parte religiose, erano molto brave a gestire ordine e disciplina; il fatto che fosse una scuola privata, frequentata da ragazzi come lui, figli di famiglie benestanti, lo facilitò molto, perché appunto gli alunni erano di "buona famiglia" — in genere tranquilli —, alcuni di loro potevano anche non amare lo studio — questo sì — ma non disturbavano la lezione o prendevano in giro chi studiasse. Insomma, era un mondo a parte, più "protetto".

Purtroppo, però, per Andrea, vedere tanti ragazzi tranquilli e gioiosi dell'età nella quale egli aveva perso la madre non fu all'inizio facile. Gli fece affiorare molti brutti ricordi di quel periodo della sua vita in cui, per quasi un mese, non era andato a scuola ed era stato praticamente tenuto sempre a letto riempito di sedativi perché altrimenti si sarebbe spaccato la testa contro il muro o buttato giù dal balcone. Fu brutto, ma cominciò anche a credere che ci poteva essere un'altra possibilità, vissuta tramite suo figlio, un domani, magari in quella stessa scuola, con una madre e un padre, non più orfano. Egli avrebbe dato a tutti i costi una famiglia a Emanuele, quella che il Fato aveva negato a lui da un certo punto in poi: e questo fu il pensiero che cominciò a imprimersi a fondo nel suo animo.

Lo rasserenò, dare una famiglia unita a Emanuele fu da quel momento in poi un suo traguardo perentorio: non ce l'aveva fatta a farlo con Ilaria, l'avrebbe fatta con Silvia. Si dedicò anima e corpo a essere un bravo padre, insegnante e compagno e ciò si ripercosse ovviamente al lavoro e in casa; con Silvia divenne sempre più gentile e premuroso — cosa che fece molto bene alla coppia che, all'inizio unita quasi solo per il bambino, trovò anche l'amore —, con Emanuele un padre attento e giocherellone e, per i suoi allievi, un insegnante paziente e capace. Anche se non era — talvolta — entusiasmante rispiegare per la decima volta il complemento oggetto, raccontare l'assassinio di Cesare o elencare le capitali d'Europa, l'idea che stesse facendo qualcosa per Emanuele, per il suo futuro, l'idea che suo figlio stesso potesse, una decina d'anni dopo, occupare quei banchi con la serenità di avere una famiglia unita e non la disperazione di aver perso una madre, lo riempì di orgoglio per quel che stava facendo.

Non si era scordato l'origine di Emanuele; sapeva che la mamma era Ilaria, ma ella diventava sempre di più nella sua mente colei che gli aveva dato il bambino ma che non aveva più diritto a tenerlo perché gli aveva negato ciò che per lui era ogni giorno di più fondamentale: famiglia e casa. Della famiglia abbiamo già parlato, per la casa si stava organizzando; quell'appartamento sotto suo padre lo aveva fatto diventare un cantiere: stava rifacendo bagno, cucina, pareti, impianto elettrico; la stava rimettendo a nuovo; anche se non ci avrebbe vissuto subito con Silvia ed Emanuele era comunque un modo per mettere un punto fermo, per sapere che c'era un posto dove, in futuro, avrebbe vissuto con la sua famiglia, finalmente unita.

Proprio perché ormai si era convinto — anche grazie alle rassicurazioni del padre — che avere Emanuele per sempre fosse solo una questione di tempo, con Ilaria cercò di evitare ogni occasione di attrito e di essere gentile quando andava a prendere e restituire il bambino, senza far battute su lei e Marco o criticarla per come lo crescesse; come aveva suggerito il padre non era il caso di allarmarla, anzi, bisognava indurla ad abbassare la guardia; Silvia stessa, dopo il colloquio con l'avvocato, cercò di dirsi meno "mamma", almeno in sua presenza.

Tuttavia questo non bastò a rendere Ilaria più tranquilla, anzi, e, la causa di questo, non erano più Andrea e Silvia, ma lo stesso Emanuele. Ella vedeva infatti che il bambino, ancorché muto, cominciava ad avere atteggiamenti, modi di fare, espressioni facciali che non sentiva provenire da lei; non era più suo nel senso totale della parola; c'era qualcosa di Silvia — in lui — che rimaneva ben oltre i fine settimana con il padre e le volte in cui lo andava a prendere al nido. Quando glielo riportavano alla domenica sera il bimbo si girava molte volte per ricevere un saluto dal papà, ma anche da Silvia, non arrivò proprio a piangere, ma si vedeva che, quando andavano via e lo lasciavano da solo con la mamma, egli per qualche minuto ci rimaneva male, era un po' apatico e guardava la porta dalla quale erano usciti papà e Silvia con una speranza di rivederli che non sarebbe stata soddisfatta se non dopo qualche giorno. Non era più la camera azzurra ciò che gli mancava: era triste da dirlo, o anche solo da pensarlo per Ilaria: ma Silvia cominciava a essere importante per Emanuele e la cercava come riferimento; la mamma era sempre lei, ma non era più la sola.

Dolore e perdono (Parte VII. La tragedia)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora