Capitolo 42 (X). Il fidanzamento

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Andrea prese poi Emanuele che continuò a tenere con tutte e due le braccia il suo palloncino e, dopo aver salutato i fidanzati, andò con Silvia a cercare un posto tranquillo dove pranzare e, magari, farlo addormentare; Anna, vedendo Irene portare un vassoio di tempura di pesce e verdura in sala, riprese l'argomento: «gattino, ma hai parlato con tua mamma? Perché la continuo a vedere andare avanti e indietro dalla cucina che aiuta Franco e i ragazzi?»

«Eh micia, le ho parlato», Marco disse improvvisamente triste, «ma proprio non vuole stare con gli altri ospiti al tavolo, dice che è contenta oggi di stare in cucina con Franco e lavorare con lui», la guardò con il viso di chi cerca aiuto, cosa che Anna comprese: «gattino, andiamo insieme, vieni, provo a parlarle anche io», lo prese per mano, cominciò a camminare verso la cucina, «tanto. . . non ho più tanta fame, tu?»; Marco le sorrise, grato di quella gentilezza: «anch'io micia, sto bene così; grazie di farlo: se vai a salutarla la facciamo più felice, lei non si osa avvicinarti oggi: magari riesci a convincerla. . . »

«Non so se ci riesco, gattino, ma ci provo: tua mamma non deve sentirsi inferiore agli altri, questo no, e poi. . . », Anna gli rivolse uno sguardo serio, «non c'è solo tua mamma da controllare oggi, purtroppo: dopo andiamo a cercare anche Ilaria, non mi piace questa cosa che si isoli; l'hai sentita Silvia un'altra volta?» 

«Sì, micia, purtroppo l'ho sentita, è sempre peggio, sembra proprio che si sia immedesimata nella parte», Marco si fermò, si girò per guardarli, erano seduti al tavolo indicato da Anna con posti liberi; Ilaria per Emanuele aveva comprato— per tenerlo in villa — un seggiolino da fissare alla tavola che Franco aveva dato ad Andrea, sembrava starci tranquillo, in mezzo a loro due; Marco la vide, sorridente, «guardala, laggiù, di fronte al corridoio, si sono seduti, la vedi?», chiese, senza indicarla; Anna si girò, la vide che batteva le mani e rideva di fronte a Emanuele quando le lanciava il palloncino che poi lei restituiva; «eccome se la vedo, gattino: la recita perfettamente!», gli rispose un po' abbattuta, ripresero a camminare verso la cucina; Marco aggiunse, soprappensiero: «forse in mente sua è proprio convinta di essere la mamma, forse si è scordata di aver avuto un figlio sette anni fa e pensa che questo sia quello ritornato.»

«Sì, ma non è così gattino! Sai che ho parlato a tua sorella prima di mangiare? Mi fa preoccupare: non fa altro che piangere e parlare di Madonna e Disegno. Lei è convinta che la Madonna le abbia fatto incontrare questa Silvia per darle il bambino e che sia tutto voluto da Lei lassù, lo sai questo?»

«Con me non è proprio così, micia, forse con te si è più aperta», Marco guardò in basso, sospirò, «mia sorella con me cerca di farsi vedere serena, ride al telefono e quando la vado a trovare; ma la conosco e la vedo soffrire; quando le chiedo qualcosa in più anche con me piange, a me non dà la certezza, dice solo che può darsi che sia il Disegno di Emanuele di avere Silvia come mamma.» 

«Ma così non si difende gattino!», Anna scosse la testa, la situazione stava diventando più grave di quel che pensasse: se anche Marco se n'era accorto voleva dire che Ilaria non era riuscita a mascherare il suo umore con lui e ciò li avrebbe sempre più riavvicinati; «è fatalista e. . . rinuncia a difendersi, chi la difende? Tu? Suo fratello? Ma non ti ci vedo. . . anche tu, gattino, sei poco o, meglio, per nulla aggressivo: anche prima non hai detto nulla, né a Silvia né ad Andrea!»

Marco si fermò, si sentì chiamato in causa e anche in colpa; era vero: egli, suo fratello, aveva visto la scena e aveva lasciato correre; cercò di immaginarsi un discorso fatto ad Andrea, così come quando aveva abbandonato Ilaria prima di conoscere Silvia, ma non gli vennero le parole, «hai ragione, micia», disse sconsolato, «non ho detto nulla, avrei dovuto, forse. . . intervenire. . . », Anna lo vide troppo giù e lo scosse, erano quasi al fondo della sala, ancora pochi passi e sarebbero entrati in cucina: «ehi, gattino, non sentirti male», gli sorrise e gli fece lo sguardo da gatta che lo faceva sempre ridere cosa che, anche quella volta, avvenne; «tu non sei fatto per queste cose, per gli scontri e le risse; certo, ti amo anche per questo, per il tuo carattere mite, ma in questi casi uno dovrebbe riuscire a tirar fuori le unghie e difendere i propri diritti o quelli di sua sorella in questo caso. Voi non ne siete capaci, purtroppo!»

Dolore e perdono (Parte VII. La tragedia)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora