Capitolo 49 (II). La lenta discesa

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Le suore la chiamavano "mamma", senz'altro appresso, dicendo per esempio: «Emanuele, alzati, che è arrivata la mamma», ed Emanuele subito diceva "mamma-iaia! Emaeuele qui! giocco, finicco", per chiedere alla mamma qualche secondo in più, mentre Ilaria lo aspettava alla porta della classe con la giacca pronta; certo. . . la chiamavano "mamma", ma, all'esterno, tutto cambiava. Si accorse subito della difficoltà di legare con le altre mamme che, in media, avevano almeno da sette a quindici anni in più di lei, quasi tutte laureate, molto più affini, per cultura, età e livello sociale a Silvia.

Ilaria si accorse di questa difficoltà molto presto, già a gennaio, febbraio del 2001; al nido ciò non era stato palese, sia perché era pubblico, sia perché era in una zona popolare di Genova e sia anche perché Emanuele era troppo piccolo ancora per legare veramente con altri amici; mentre lì tutto ciò stava cambiando, non era raro che vedesse Emanuele in classe giocare con qualche bambino, sempre gli stessi due o tre, non più da solo, e, quando lo prendeva, salutava gli altri suoi compagni già chiamandoli per nome e diceva alla mamma frasi del tipo:

«Mamma Iaia, Emauele giocato F-anchecco, colo-ato con Mattia. . . fatto co-ttuzioni con Michele»

Dove, appunto, Francesco, Mattia e Michele erano compagni di classe che Ilaria imparò a riconoscere di viso e anche a salutare, così come le loro mamme quando li attendevano insieme in corridoio; ma, a parte un generico, educato, forse anche un po' freddo, «buonasera signora» accompagnato dai soliti discorsi sul tempo, inverno e piccoli raffreddori dei bambini, non c'era stato ancora un vero e proprio legame fra quelle mamme e Ilaria. In realtà il legame c'era, ma con l'altra mamma.

Silvia, infatti, non aveva perso tempo o, meglio, era nel suo ambiente e si trovava meno a disagio che al nido; legò subito con le mamme che, da una parte, sentivano che veniva chiamata "signora Silvia" dalle suore, ma la vedevano con il papà, sentivano che Emanuele andandole incontro la chiamava "mamma Tivia!", sapevano che abitava lì vicino, in corso Firenze, in una bella casa, in un palazzo signorile, un posto che per loro era comune, con comuni esperienze, comuni stili di vita, comune parrocchia dove andare e incontrarsi la domenica a Messa, e, ovviamente, anche a casa.

Già a gennaio, per esempio, Emanuele cominciò a dire cose alla mamma che la fecero un po' intristire, per esempio: «mamma Iaia, came'etta mamma-Tivia giocato Michele», oppure: «mamma Iaia, Emauele cameetta Fracchecco brum, mamma Tivia», o anche: «papà, mamma Tivia, mamma Mattia, papà Mattia pappa Emauele»

Ilaria capì da queste frasi che sempre più spesso Emanuele era invitato a casa dei suoi amichetti e, per ricambiare, egli, o, meglio, Silvia, invitava gli amichetti a casa sua, con anche, probabilmente, cene insieme o giochi comuni. Non sapeva come fare, perché ancora aveva una casa un po' piccola e si vergognava di far venire gli amichetti in casa sua, senza una cameretta e, del resto, le altre mamme non avevano mai invitato lei; il problema era anche che si vergognava a parlare a quelle mamme che vedeva diverse, un po' staccate.

Provò a fare conversazione, talvolta, non con molti risultati; di solito, infatti, appena le altre mamme sapevano che aveva appena ventun anni, con un figlio di tre, non sposata, una semplice sarta che viveva da sola in un appartamentino in affitto in un quartiere popolare cominciavano a parlarle solo di cose senza importanza, senza confidenza e senza, per esempio, cercare di invitarla a casa loro con Emanuele che, però, le riconosceva e, se ne vedeva una all'uscita di scuola, la indicava e diceva:

«Mamma Mattia! Emauele, giocato came'etta mamma Tivia ie'i»

Dove "ie'i" per Emanuele significava un giorno del passato, non necessariamente quello prima. E la mamma poteva rispondere:

«Sì Emanuele, poi la prossima volta vieni tu con mamma da Mattia, va bene?»

Solo che, però, in quel caso, "mamma" non era Ilaria, ma Silvia. Ilaria rimaneva sempre gentile, salutava e portava Emanuele e lo riportava a casa, ma si sentiva sempre di più esclusa. Aveva provato a dire a qualche mamma: «magari potete venire a casa mia a giocare un po'?»; e riceveva non proprio rifiuti ma frasi del tipo: «signora poi vediamo», «siamo molto impegnati», «lei abita un po' distante, magari un giorno che c'è mio marito che mi possa accompagnare», «quest'anno il raffreddore ci perseguita» e cose del genere. La parola "marito" era spesso usata, consciamente o meno, per dare una distanza, come se Ilaria, non avendo una fede al dito, fosse un pochino meno mamma.

Dolore e perdono (Parte VII. La tragedia)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora