Spaghetti di soia e robot (parte 2), 19 aprile 2020

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Appena il termo scanner ha rivelato il mio stato di salute, il volto cerato di Wang-shi si è irrigidito tanto da sembrare una maschera di porcellana. È rimasta pensierosa per qualche secondo, quindi ha fatto un inchino ed è di nuovo scomparsa.

Nemmeno il tempo di alzarmi e dirigermi verso la porta d'uscita, che eccola tornare, questa volta in abiti ben più formali, camicetta e gonna da impiegata d'ufficio.

― Da questa palte ― ha proferito indicandomi il retro.

L'ho seguita in un corridoio lungo e stretto. L'abbiamo percorso fino a una porta aperta su scale che scendevano in un seminterrato con diverse altre porte sui lati. Siamo entrati in un locale di piccole dimensioni, simile a un bagno sebbene senza sanitari, piastrellato di bianco che puzzava terribilmente di ammoniaca. C'era giusto un lavandino, due sgabelli economici di metallo e un tavolo con la piana in formica. Un ventilatore da soffitto muoveva l'aria.

E lì mi ha lasciato ritornando poco dopo vestita con un camice bianco, guanti e mascherina. In testa aveva una cuffietta, nei piedi ciabatte da infermiere. Le mani stringevano un paio di scatole di cartone di piccole dimensioni e una bottiglia di alcool.

Ci siamo seduti sugli sgabelli, uno di fianco all'altra. Wang-shi ha posato le scatolette e ha aperto la prima: all'interno c'erano dei test sierologici. Ha quindi steso il braccio sul tavolo facendomi segno di togliere i guanti e fare lo stesso. Mi ha pulito l'indice con un batuffolo intriso di alcool per poi bucarlo e prelevare con una pipetta qualche goccia del mio sangue che ha riversato nell'ugello del test sierologico.

Un bel sorriso, un po' ingessato a dire il vero, prima di aprire la seconda scatoletta da cui ha recuperato un cotton fioc lungo una trentina di centimetri.

E lì è stato decisamente meno piacevole: mano destra sulla fronte per inclinarmi il capo all'indietro e violazione del mio naso con il suddetto attrezzo fino a raggiungere la gola.

A quel punto c'è stato un gran trambusto al piano di sopra. Passi, vociare, Wang-shi ha detto qualcosa in cinese, quindi è uscita dallo stanzino e l'ho sentita allontanarsi.

Sono rimasto per circa cinque minuti seduto sullo sgabello con un cotton fioc lungo una spanna infilato nel naso. Mi irritava terribilmente la gola. Mi è venuto da starnutire, giuro che ho fatto di tutto per trattenermi, ma non ce l'ho fatta. Ho scostato la mascherina e infilato appena in tempo la bocca nella piegatura del gomito.

Ecciù! Il mio starnuto è riecheggiato nello stanzino. Dalla porta è rispuntata Wang-shi: mano di nuovo sulla fronte ed estrazione del suddetto tampone dalla mia cavità nasale che ha infilato in una provetta. Un'occhiata sul sierologico prima di dirmi: ― Positivo.

Abbiamo lasciato lo stanzino e ci siamo infilati in una seconda porta. Il locale era grande il doppio del precedente. Anch'esso piastrellato di bianco e con un lavandino, aveva all'interno una struttura in legno simile a una sauna sulla cui porta si apriva una minuscola finestrella in vetro dalla quale filtrava una luce violacea. Su una parete era stata posizionata una specie di lavatrice dalla quale fuoriusciva una tubazione zincata che saliva sparendo nel soffitto.

― Spolialsi ― ha ordinato Wang-Shi aprendo l'oblò della lavatrice ― vestiti, qui.

― Devo andare ― ho risposto titubante ― lavoro.

― Tu positivo colonavilus, no andale.

Sulla porta è apparso un uomo tozzo ma incredibilmente robusto, anch'esso di etnia cinese, anch'esso con guanti, cuffia e mascherina. Non è servito che dicesse altro.

Nemmeno le mutande mi hanno lasciato. Anche Wang-shi si è spogliata, e lo stesso ha fatto l'uomo. Ognuno ha gettato i propri vestiti nell'oblò. Wang-shi l'ha chiuso, ha premuto un pulsante e una fiammata li ha inceneriti in pochi secondi. Quindi si è avvicinata alla porta di quella specie di sauna. Alla finestrella è spuntata la testa del Marchino. Wang-shi ha aperto e, nudi come mamma ci ha fatto, siamo entrati all'interno.

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