-Capitolo 64

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CALUM

*FALSHBACK*

Dentro casa, mi appesi ai vari mobili per evitare di cadere. Mi girava la testa, mi si raggomitolava lo stomaco.

Una settimana era già passata e il lavoro con papà andava a gonfie vele, nonostante i miei voti ne risentissero tanto quanto i miei rapporti sociali; ero irascibile, ero lunatico.
«Calum» severa, la figura di mia madre si presentó all'entrata.
«Dove sei stato?» parlava con le mani sui fianchi e gli occhi pesanti.
Non risposi, erano giorni che le rispondevo a monosillabi per poi sentirmi in colpa e riversare sul lavoro i miei sentimenti.
La liquidai con un gesto della mano e cominciai a salire le scale
«Calum Thomas Hood! Scendi subito e rispondi a tua madre!» la voce era cattiva, con una punta di dolcezza e maledettamente preoccupata.

«Con tuo marito! Ero con lui, a lavorare» sbottai. Non lo chiamavo 'papà', non lo meritava.
Mi morsi la lingua, mamma non sapeva delle mie nottate fuori con quell'uomo; credeva che lui e solo lui fosse la vergogna della famiglia.
«Tu cosa?!» la voce spezzata in un sussurro, le mani difronte alla bocca per bloccare il dolore che ne sarebbe uscito fuori altrimenti. Si mamma, non sono quel ragazzo che ti aspettavi un giorno diventassi.

Portó una mano al cuore e indietreggió fino a tenersi salda ad uno scaffale.
«No, no, no» ripeteva piano, sconvolta.
«Tu non puoi..» balbettava e guardava il pavimento; sembrava stesse per svenire.

«Cosa avete fatto?» una lacrima le rigó il volto e riuscii a sentirla bruciare sulla mia pelle. Odiavo quella sensazione di debolezza e soprattutto, odiavo vederla soffrire per colpa mia.
«Lavorato» sussurrai. Mi vergognai in quel momento; volli solo sparire e cancellare con un incantesimo la memoria di mia madre potendo ricominciare tutto da capo. Avrei fatto di meglio, mi dissi.

Ora era poggiata al pavimento, il volto distrutto, coperto di lacrime, spasmi leggeri controllavano il suo corpo inerme e potei sentire il mio cuore restringersi fino a diventare un buco nero.
«Non posso perdere anche te» singhiozzò asciugandosi gli occhi e io volli raggiungerla per consolarla, ma qualcosa mi teneva lontano da lei e io la lasciai lì, straziata, a piangere.
«Non tu Calum. Sei mio figlio, io ti amo, meriti di più, tu sei di più! Più di tutto questo» gemiti le scappavano dalla bocca ed io rimanevo immobile sul terzo gradino della rampa, impotente, assente.

Quanto l'avevo delusa, quant'era cambiata.
L'avevo ferita facendole scoprire la mia realtà ed ora, a quattro anni di distanza, ero nella stessa orrenda, maledetta situazione, dove io sono la causa principale del male e dei graffi al cuore della gente.

Sul mio divano, ero ormai rassegnato alle lacrime che mi concedevo di piangere e che solcavano le mie guance.
Amarezza, disprezzo per me stesso, ribrezzo e delusione, più di quanto ne avessi provata negli ultimi anni.
Harper era l'unico senso che davo alla mia vita e me l'ero fatta scappare come sabbia tra le dita; in quel momento ero triste, schifato da me stesso, arrabbiato, semplicemente, vuoto.

Non so da quante ore non mi alzassi dal divano o da quante non mangiassi o non dormissi.
L'unica cosa che volevo era dimenticare e scappare di nuovo: forse scomparendo e con l'aiuto del tempo avrei contribuito a cicatrizzare tutte le ferite provocate in questi mesi. Forse, lasciandomi alle spalle la pioggia, avrei trovato il sole e, con piccoli punti di sutura avrei ricostruito me stesso.

Mi alzai, presi il pacchetto di sigarette e spalancai il balcone della sala, venendo bagnato da quella stessa pioggia pesante. Contribuii alla nebbia accendendo una sigaretta e guardando come tutto sembrasse normale: il mondo girava ancora, le stesse persone camminavano sotto la mia finestra, lo stesso barbone si copriva dalla pioggia con lo stesso cappotto fradicio, la stessa coppia di fidanzati dall'altra parte del condominio, la stessa città; l'unica cosa diversa ero io.
Ero cambiato, ora non avevo niente.

Imagine [C.H] #Wattys2016Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora