56 ⋆ I Wish He Was You Instead

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«Vuoi che venga con te?».

«Sì, per favore».

Era con quello scambio di battute che si era decisa la situazione in cui erano in quell'istante.

Lydia si torse le mani in grembo, nervosa, e lanciò un'occhiata alla struttura bianca fuori dal finestrino. Il suo accompagnatore parcheggiò la lussuosa macchina sportiva, nera e lucida come il dorso di uno scarafaggio, nell'unico posto libero che erano riusciti a trovare dopo almeno tre giri.

Si tolse gli occhiali da sole, facendoli scivolare sopra la testa e tirando indietro i capelli ramati che, lasciati sciolti, le cadevano morbidamente sulle spalle, fino ad arrivare a lambirle i fianchi. Avrebbe dovuto tagliarli un po', prima o poi.

«Come ti senti?».

Una mano calda e grande si posò sulle sue più piccine e gelide per il nervoso, stringendole con tenero affetto. Lydia si voltò e mostrò un sorrisino sulle labbra dipinte di rosa chiaro, che le donava un'aria molto naturale.

«Starò bene.» rispose, stringendosi debolmente in una spalla.

Colby Lopez annuì e la stretta intorno alle sue mani si fece più salda, trasmettendole in qualche modo quell'infusione di coraggio che le serviva per decidersi a scendere dall'auto e ad affrontare la giornata.

«Andiamo».

Lydia annuì, prese un ultimo, profondo respiro e aprì lo sportello.

L'aria frizzantina, tipica delle mattine invernali, l'accolse con un sospiro leggero, quasi svegliandola da quello stato di torpore che il calore della macchina (e delle mani di Rollins) le avevano regalato. Colby l'affiancò e la strinse teneramente a sé, circondandole le spalle con un braccio e poggiandole un bacio sulla tempia. «Andrà tutto per il meglio, vedrai.» le sussurrò, a mo' di incoraggiamento.

Ancora una volta, Lydia si limitò ad annuire e, ancora legati da quell'abbraccio, si incamminarono verso l'ampio parco antistante la clinica.

***

«Partiamo con qualche domanda di base, va bene?».

Lydia prese l'ennesimo, profondo respiro della mattina, considerando mentalmente che, se le riserve di ossigeno nel mondo fossero state limitate per ogni persona, lei avrebbe già consumato gran parte della sua scorta vitale. Fissò il soffito bianco e asettico della stanza, le mani intrecciate sul ventre, la schiena comodamente adagiata sul divanetto di pelle chiara. Lanciò un'occhiata fugace a Colby, che se ne stava educatamente seduto su di una sedia all'angolo della stanza, poi tornò a guardare in alto, perdendosi nei dettagli totalmente inutili del decoro che contornava i bordi delle pareti.

«Va bene,» rispose, «sono pronta».

Maria Màrquez, la bella psicologa di origini ispaniche che l'aveva in cura, girò il foglio del suo block notes, penna alla mano. «Come ti chiami?».

«Lydia. Lydia Russo».

«Lo ricordavi, dopo l'incidente?».

«No... non subito.» ammise mentre, con un moto d'affetto che le tirò le labbra in un sorriso inarrestabile, ricordò che Jon l'aveva chiamata little fighter per tutta la sera e tutto il giorno seguente, prima di capire quale fosse il suo vero nome.

Maria appuntò qualcosa. «E quando lo hai ricordato? In che circostanze?» si informò, scrutandola con penetranti occhi scuri.

Lydia ci pensò un po' su. «Un messaggio.» rispose, annuendo appena. «Sì, Jon mi disse di aver letto sul mio cellulare che alcuni amici, credo fossero miei amici, mi chiamavano Lys. Ho avuto un flash e in quel momento ho saputo che il mio nome era Lydia.» raccontò.

𝐀𝐧𝐲𝐭𝐡𝐢𝐧𝐠 𝐛𝐮𝐭 𝐎𝐫𝐝𝐢𝐧𝐚𝐫𝐲Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora