Jamie 126

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Finalmente le due settimane passarono e io ero in taxi verso casa. Casa. Sì. Perché non importava dove mi trovassi quando ero con Dakota, era lei la mia casa. Avremmo pure potuto essere in Africa e mi sarei sentito uguale. Del resto a fine Aprile avrei dovuto veramente partire per l'Africa. Dovevo girare un film sulla seconda guerra mondiale. Avevo firmato già un bel po' di contratti, io potevo scegliere ciò che più mi piaceva, a differenza di prima che facevo ciò che mi si presentava. Ovviamente c'erano anche i contro: Non avevo più privacy. Dovunque c'erano paparazzi o fans pronti con il telefonini a scattare foto. Per quanto gratificante, stava diventando un incubo. Avevo paura pure a farmi una doccia, senza non finire immortalato da qualche stolker o intraprendente paparazzo. Così quando venivo a New York dalla mia donna, mi travestivo in modo da non farmi riconoscere. Avevo acquistato una parrucca nera, mettevo un cappellino da baseball, occhiali scuri e la folta barba che tanto amava la mia Dakota mi aiutava. In qualche modo nessuno mi riconosceva e io ero tranquillo. In quelle due lunghissime settimane, ero andato alla ricerca di una splendida villetta sul mare e la fortuna volle che la trovai. Era abbastanza grande da poterci fare una scuderia. Anche se a me spaventavano quelle bestie, sapevo che Dakota le amava e quella villetta la comprai per lei. Patteggiai un buon prezzo con l'agente e infine molto felice e soddisfatto l'acquistai. Saremmo stati felici in quella casa. Io, lei e i nostri figli. Non vedevo l'ora di dirglielo. Chissà che faccia avrebbe fatto... Sicuramente ne sarebbe rimasta felice. Avevo preso in considerazione di fare quel passo dopo i Golden Globe. Avevo deciso di accettare l'aiuto di mio padre. Gli avrei restituito tutto. Fino all'ultimo centesimo. Tutto, purché non perdessi la mia Dakota. Nelle ultime settimane che mi erano sembrate un anno, ero stato un inferno. Io e Amelia avevamo litigato parecchio. Ci insultavamo e urlavamo addosso, mentre Dulcie piangeva e strillava disperata. Come al solito ero sempre io ad occuparmi di lei. Era l'unica cosa buona che era venuta fuori della nostra unione.
Ma io sognavo, desideravo con tutte le mie forze, che presto Dakota mi avrebbe dato un figlio. Il nostro bambino. O meglio bambina. Dopo quella volta che avevo pensato che lei fosse in cinta, mi ero fissato sul sesso femminile. Volevo una bella bambina bionda con gli stessi occhioni azzurri del mio amore. Una piccola Dakota. La nostra Preziosa! Il solo pensiero mi fece agitare sul sedile posteriore del taxi. Sorridevo come uno stupido. Avevo in mente sempre lo stesso nome che le avevo sentito pronunciare nel sonno. Preziosa. E lo sarebbe stata davvero. Ormai erano passati già quattro mesi dall'ultimo test di gravidanza che avevamo fatto insieme. Avevamo deciso che l'avremmo ripetuto se lei avesse avuto un ritardo o dei sintomi inerenti alla gravidanza. E ci furono dei giorni che ero davvero convinto che lo fosse. Aveva vomitato spesso e i suoi seni mi erano sembrati più gonfi... e giurerei che aveva sul viso quell'aria luminosa che hanno solo le donne in gravidanza. Purtroppo sapevo che Dakota vomitava spesso per stress e ultimamente era troppo stressata. Il ciclo non era saltato, anche se sapevo che in alcuni casi non voleva dire niente. Non mi spiegavo il gonfiore ai seni... Per quanto riguardava l'aria luminosa, mi era bastata vederla su Skype per constatare che non era più visibile. Dopo la serata ai Golden Globe Awards, era come strana. Non le davo tutti i torti: quella puttana aveva fatto saltare la nostra prima uscita ufficiale insieme. Ero stato molto male. Non mi era passato inosservato la maschera di finzione che si era calata per affrontare quella dura serata. Stavo veramente per dire a tutti in quella sala che lei era la mia donna, colei che amavo sopra ogni cosa. Ma Dakota aveva ragione: agendo in tal senso avrei dato un'altra buona occasione a quella puttana di distruggermi. La cosa che più mi faceva diventare matto era che alla premiere di Berlino e Londra, lei mi avrebbe dovuto accompagnare per forza. La cosa mi faceva imbestialire, l'unica premiere a cui Dakota sarebbe stata al mio braccio, era quella di New York e avrei dato il meglio di me per farla sentire mia davanti a tutti.
Non riuscivo a dimenticare quanto fosse divina ai Golden Globe Awards, e ciò nonostante, quel termine mi sembrava un eufemismo a paragone. Non c'erano parole per poterla descrivere e la cosa che mi distruggeva più di tutte e che io non potevo dire a tutti che lei mi apparteneva. Guardavo quelle teste di cazzo che l'ammiravano e lasciavano scivolare i loro occhi lascivi sul corpo della mia donna. Era un tormento. Sì, anche la parola tormento poteva risultare l'eufemismo dell'anno. Sapevo già che avrei dovuto ingoiare altri bocconi amari a Berlino e Londra. Sbuffai pesantemente. Mi sentivo davvero stanco. Era così difficile inseguire la felicità? Io forse non la meritavo? Non importa quanto ci sarebbe voluto. Avrebbe potuto richiedere un giorno, avrebbe potuto volerci un anno, ma sapevo che eravamo destinati a stare insieme. Prima o poi la strada si sarebbe spianata. Lo credevo fortemente.

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