Capitolo 42

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Mina non riusciva a smettere di piangere, faticando anche un po' a respirare per colpa dei continui e violenti singhiozzi. Aveva aspettato così tanto. Per anni aveva detto no, certa che il suo momento non fosse ancora arrivato. E ora aveva ceduto, solo per rimediare a quello stupido senso di colpa che la tampinava. Andrew l'aveva sempre rispettata, lo sapeva. Anche lui aveva aspettato anni, eppure sentiva di essere stata violata. Si sentiva sporca, e aveva addosso l'orrenda sensazione di aver mancato di rispetto a sé stessa.

Si fermò davanti casa Adams spontaneamente. Non voleva rientrare, non voleva vedere suo padre, o avere l'ennesimo confronto con Eva. Lo stomaco era chiuso e dolorante, la pelle sudata e gli occhi spenti. Non si era nemmeno lavata, e il terrore di aver sporcato i pantaloni o il sedile dell'auto non riusciva ad abbandonarla. Aveva visto un po' di sangue sulle lenzuola del letto di Andrew, ma aveva finto di ignorarlo per fuggire da lui e da quella casa che la stava soffocando.

Quando Vanessa Adams aprì la porta, prese subito Mina, visibilmente sconvolta, tra le braccia. Le accarezzò i capelli con fare materno, mentre il marito le guardava confuso.

«Vi prego, non chiamate mio padre. Non è successo nulla» sussurrò la ragazza, conoscendo bene i genitori di Micol. I due si guardarono di sottecchi e Mina, allontanandosi un po', fissò Vanessa provando a regolarizzare il respiro per ripetere con fermezza quella richiesta.

«Sei sconvolta» azzardò la donna, preoccupata. Mina si asciugò gli occhi velocemente, scuotendo il capo.

«No, non è successo nulla, ho avuto una discussione con papà qualche giorno fa, prima ho litigato con Andrew e ora sono scoppiata. Ho solo bisogno di parlare con Micol» spiegò. Vide Vanessa scrollare le spalle esausta mentre Mick, il marito, continuava a esaminarla.

«E va bene» asserì la donna. L'uomo la fissò spiazzato, ma annuì, convinto dagli occhi di lei. Era sempre così, Mick pendeva dalle labbra della moglie, che riusciva a fargli cambiare idea con uno sguardo.

Mina li ringraziò con un sorriso debole, prima di salutarli e salire le scale verso la stanza della migliore amica. La immaginava intenta a leggere qualcosa, sul divanetto che aveva all'angolo destro della camera. Quell'immagine le si presentò davanti non appena aprì la porta, scoppiando automaticamente a singhiozzare non appena la vide. Si richiuse la porta alle spalle, poggiandovi la schiena e scivolando fino al pavimento. Micol impallidì, raggiungendola e prendendola tra le braccia. In un attimo, tutti i problemi degli ultimi giorni scomparvero, come foglie secche portate via da un vento glaciale.

«Ma che è successo? Perché piangi?» chiese terrorizzata. Mina non riusciva a fermare i singhiozzi, tanto che Micol pensò di doverla aiutare o sarebbe morta per asfissia. Si allontanò appena, porgendole un po' d'acqua che la mora accettò volentieri. Bevve più di un bicchiere, prima di riuscire a calmarsi. Teneva lo sguardo fisso al pavimento, timorosa di qualsiasi giudizio. «Allora?» la esortò ancora Micol.

«Mi vergogno da morire, sono una persona orribile» fu la prima cosa che disse. L'amica continuò ad accarezzarla teneramente, rassicurandola un po'. Niente avrebbe potuto giustificare una reazione del genere, che non aveva avuto nemmeno dopo l'episodio alla festa di beneficenza.

«Non credo tu sia così orribile. Non più del solito, insomma» provò a sdrammatizzare ma l'espressione vuota di Mina la fece tornare sui suoi passi. «Allora, vuoi dirmi che cosa è successo?» aggiunse.

«Ho fatto sesso con Andrew». Un sussurro flebile, quasi impercettibile. Micol la strinse un po' di più, lasciandole qualche bacio tra i capelli scompigliati.

«Vuoi raccontarmi come è andata?» chiese, senza però farle alcuna pressione. Sapeva che Mina era lì per parlare, e che non avrebbe dovuto forzarla affatto. La vide alzarsi a fatica, andando verso la porta finestra in legno, che aprì senza dire nulla, uscendo sul balcone. La seguì, sedendosi sulla poltroncina in finto vimini. Mina si poggiò alla ringhiera dando le spalle a Micol, che percepì i suoi singhiozzi incostanti dagli scatti intermittenti della schiena. Aspettò con pazienza, vedendoli pian piano diminuire. Una volta placati del tutto, Mina si voltò. Rimase in piedi, con le mani lungo i fianchi e le maniche della felpa che nascondevano anche le dita, per coprire il polso rosso. Per la fretta, aveva lasciato la fascia di spugna a casa di Andrew, e Micol non doveva vedere quel livido.

«Volevo farmi perdonare. Pensavo fosse colpa mia: la rissa con Colin, la sospensione, tutto quanto...» spiegò, continuando ad asciugarsi le gote ancora leggermente umide dal pianto.

«E lui, ovviamente, non si è tirato indietro» commentò Micol, con un velo di acidità che non riuscì a nascondere. Mina sorrise amaramente.

«Non è colpa sua, non mi ha obbligata» asserì facendo ridacchiare l'amica.

«Ah no? Eppure ti conosce, sapeva quanto fossi contraria. Ma giustamente, cosa dobbiamo aspettarci da uno che nel cervello ha Abu in prognosi riservata?» domandò retorica. Non riusciva più a trattenere lo sdegno verso il fidanzato dell'amica. L'aveva sempre sopportato poco, era sempre stata contraria a quella relazione. Andrew era un superficiale cronico, un viziato, un egocentrico. Trattava Mina come un trofeo, lo aveva sempre fatto.

«Mi sento così sporca» sussurrò dopo qualche secondo di silenzio. Micol toccò con mano tutta quella fragilità, che emerse per l'ennesima volta con un fiume incessante di lacrime. Le sembrò di vedere l'amica rompersi davanti a sé, così tornò sui suoi passi, mettendo da parte Andrew. Doveva concentrarsi su di lei che, ormai senza freni, le raccontò tutto ammettendo, finalmente a gran voce, di essere innamorata di Colin. «Avevo lui in mente e il dolore era lancinante. Non solo fisico. Mi sento uno schifo» spiegò.

Micol lasciò la poltroncina per avvicinarsi e prenderla ancora tra le braccia. La strinse così forte che, dopo giorni di completa e ingestibile solitudine, Mina si sentì finalmente al sicuro, protetta da quelle braccia che l'avevano sempre fatto.

«Devi lasciarlo, non va bene per te» bisbigliò la bionda decisa. Non c'era alcun rimprovero nel suo tono, era una constatazione che sapeva di aiuto e di supporto. Mina tirò su col naso, fissando un punto non ben definito. Quello era stato il suo primo pensiero, non appena aveva lasciato casa Bennett, sapeva di doverlo fare. Razionalmente, era certa fosse la cosa migliore.

Purtroppo, però, in quel momento non riusciva affatto a essere razionale. Cosa sarebbe successo? Colin non l'avrebbe perdonata, Micol avrebbe ricordato i dissapori degli ultimi giorni, gli altri si sarebbero schierati con Andrew. Avrebbe perso tutto, sarebbe rimasta completamente sola.

All'improvviso, come spesso accadeva quando era di fronte a scelte importanti, la voce pacata e fiera di Eva fece capolino nella sua mente. Ricordò ogni discorso della matrigna, ogni consiglio, ogni avvertimento. Glielo ripeteva di continuo, di imparare a scegliere di chi circondarsi. Lasciare Andrew significava perdere tutto: popolarità, giuste amicizie, successo. Lo avrebbe fatto, se avesse avuto la certezza di avere Colin. Ma Colin non ne voleva più sapere, la odiava. Quindi perché perdere tutto? Pochi mesi e avrebbe lasciato Moonlight per una nuova vita. Per nuove persone. Non si sarebbe giocata quegli ultimi mesi apparentemente perfetti. Non per rimanere del tutto sola.

Decise non ribattere all'ultima affermazione di Micol, non voleva litigare con l'amica appena ritrovata. Ci avrebbe pensato domani, a dirglielo. O forse no. In fondo, le sarebbe bastato vederli insieme per capirlo, quindi perché informarla? Micol era un'idealista, incapace di scendere a compromessi. Mina era l'opposto, cresciuta da una donna che aveva fatto del compromesso il suo pane quotidiano.

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