Capitolo 54

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Quelle prime ore di scuola erano sembrate a Micol infinite. La sua mente continuava a essere ferma su Mina e sulla sua totale e apparentemente indistruttibile apatia. Non l'aveva mai vista così tanto abbandonata a se stessa, così arrendevole e in balia degli eventi.

Voleva urgentemente parlarne con gli altri, conscia di quanto tutti fossero preoccupati per la giovane Ramon, e il suono fastidioso della campanella che segnava l'inizio della pausa pranzo le sembrò la prima ancora di salvezza in quella giornata infernale.

Raccolse i libri e la penna che teneva sul banco e, senza risistemare nulla in borsa o nell'armadietto, corse in sala mensa, ancora semivuota, occupando il suo solito tavolo e aspettando impaziente. Il primo ad arrivare fu Colin, bianco come non era mai stato e anche lui con due occhiaie vistose che rovinavano quel viso perfetto.

«Dormito poco?» Micol provò a buttarla su una battuta che non divertì nessuno dei due. Lui annuì assente, massaggiando un po' le tempie. Presto li raggiunsero anche Hannah, Leo, Steve e Nicole, e Micol cominciò a raccontare loro gli ultimi avvenimenti, dalla droga alle discussioni con Alexandra Burke, con Lip e con Mina. Il gruppo si incupì all'istante, soprattutto Steve, che allontanò da sé il vassoio.

«Mi si è chiuso lo stomaco» borbottò, mentre Leo gli strinse la mano in segno di supporto. Il giocatore di football sorrise al fidanzato, ringraziandolo silenziosamente e stringendo forte quella mano che era diventata, negli ultimi mesi, il suo unico sostegno.

«Non devi sentirti in colpa» intervenne anche Nicole.

«Mi ci sento, però...» ammise Steve. «È partito tutto da me, è partita da me la goccia che ha fatto traboccare il vaso, quando non ho voluto ascoltarla. Quando l'ho incolpata di cose che non aveva mai fatto».

Micol gli sorrise comprensiva, accarezzandogli la mano libera e guardandolo fisso con quegli occhi ambrati che tutti trovavano rassicuranti.

«È colpa tua quanto nostra... non prendere sulle spalle un fardello non tuo. Siamo stati superficiali, assenti... tutti quanti, non soltanto tu». Le parole della ragazza lo confortarono appena, come se dividere quella colpa la rendesse meno pesante.

Il pranzo proseguì silenzioso. Nessuno mangiò e nessuno disse molto altro, tutti immersi in pensieri forse troppo grandi per la loro giovane età. Colin era rabbioso, tanto da rispondere male all'inserviente che voleva semplicemente pulire il tavolo. Si scusò subito, alzandosi meccanicamente e lasciandoli soli, senza dare alcuna spiegazione. Decise che quella giornata scolastica poteva finire lì, che non avrebbe regalato altro tempo a quegli insegnanti o a quella scuola, almeno per quel giorno.

Aveva bisogno di stare da solo per un po', prima di raggiungere Lip e ricominciare col lavoro. La sera ci sarebbe stata una festa al Mirror, una festa su cui Jim puntava molto, una festa piena di ragazzini a cui avrebbe dovuto vendere droga. Il pensiero gli scombussolò lo stomaco così tanto da farlo fermare sul ciglio della strada. Accostò e scese in fretta dall'auto, vomitando bile. Non mangiava dal giorno precedente, nel suo corpo non c'era niente da vomitare, eppure non riusciva a fermarsi. I conati erano continui e travolgenti, talmente violenti da mozzargli il fiato. Passò qualche minuto, prima di riuscire a fermarli e tornare a respirare. Rimase ancora un po' sulla strada, poggiato all'auto e piegato con le mani sulle ginocchia. Non avrebbe potuto guidare, non in quello stato, non con la vista appannata e il fiato corto. Aspettò di riprendersi prima di salire in auto e ripartire verso casa.

Parcheggiando al suo solito posto, rimase sorpreso nel vedere il furgone del padre nel vialetto. Paul solitamente pranzava al negozio, in attesa di clienti che non sarebbero arrivati. Colin spense l'auto e corse in casa, preoccupato. Non trovò il padre, non subito. Non era in cucina, non era in salotto, non era in bagno. Lo chiamò un paio di volte e la non risposta da parte dell'uomo fece crescere ancor di più la tensione nel ragazzo, che ispezionò tutte le camere rimaste, prima di trovarlo nella sua stanza, immobile, seduto sul letto del figlio con lo sguardo perso nel vuoto e una bustina tra le mani che Colin conosceva troppo bene. Gli si gelò il sangue nelle vene, ma provò a mantenere la calma.

«Papà» sussurrò. L'uomo non rispose e non volse lo sguardo verso il figlio. «Papà», lo richiamò Colin, scuotendolo appena.

Paul sembrò risvegliarsi. Guardò il figlio con uno sguardo così pieno di delusione e tormento, che Colin pregò fosse tutto un incubo.

«Perché?» sospirò il padre con voce tremante, mostrando quella bustina che stringeva tra le mani.

«Io...» provò a giustificarsi Colin. Paul non gli diede il tempo. Si alzò dal letto, parandosi davanti a lui. Aveva gli occhi gonfi e pieni di lacrime, il viso ancora bagnato e le mani che tremavano.

«Perché? Pensavo odiassi questa merda, perché vuoi rovinarti la vita?» chiese, con una calma che terrorizzava Colin.

«Per soldi» ammise il ragazzo, pieno di vergogna.

«Soldi?» ripeté Paul incredulo. «Vuoi dire che la vendi?» aggiunse, e la delusione divenne palpabile.

«Io...» Non avrebbe trovato una giustificazione valida, sapeva di non averla, così decise di sprofondare sul letto, la testa tra le mani e calde lacrime sul viso stanco.

«Sai come ha ridotto tua madre. Vuoi fare questo a un'altra famiglia? Vuoi uccidere qualcuno? Io non ti ho cresciuto così» urlò Paul. Quell'ultima frase risvegliò in Colin un risentimento che da mesi provava a celare. Scattò in piedi come una molla, arrivando a sfiorare il naso del padre a muso duro.

«Cresciuto? Quand'è che mi hai cresciuto?» Sputò fuori un rancore che l'uomo non aveva mai visto e che lo fece indietreggiare. «Tu non sei un padre, non hai mai fatto il padre. Sono qui perché i nonni sono morti, o avresti passato l'ennesimo Natale senza vedermi. Non mi hai cresciuto, non sai niente di me. Perché dovrei darti spiegazioni? Pensi di avere qualche diritto su di me? È la mia vita, la vivo come voglio» sbottò prendendogli la bustina dalle mani e non dandogli alcuna possibilità di replica. Uscì dalla stanza e sentì distintamente i singhiozzi di un padre che conviveva giornalmente con un senso di colpa che Colin non poteva comprendere. Il senso di colpa di un genitore che non c'era stato.

Quei singhiozzi lo fecero indugiare qualche istante, prima che l'orgoglio prendesse il sopravvento spingendolo fuori casa. Aveva bisogno di stare da solo, aveva bisogno di riflettere, di capire. Aveva bisogno di silenzio. Spense il cellulare, salì in macchina e guidò per ore senza una meta. Avrebbe parlato con Paul il giorno dopo, avrebbe recuperato quel rapporto, avrebbe aiutato Mina, avrebbe mollato Jim. Sarebbe diventato una persona migliore. Domani. 

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