Autunno 1911

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Cammina stentatamente. Il respiro affannoso si condensa nell'aria formando nuvolette a ogni passo. L'uomo trascina il piede sinistro come un calco di gesso; lo sa, quando arriva il clima umido e freddo, i dolori si fanno più feroci. Ha il cappello ben calato sulla testa; folate di vento improvviso lo costringono a mettere una mano sulla falda per non farlo volare via. La punta del bastone, a cui ultimamente non può rinunciare, penetra nel fango.

 Lo sguardo si abbassa a osservare il procedere incerto dei passi attutiti dallo strato melmoso, viscido; deve prestare attenzione a non scivolare. Le dita artigliano l'estremità del bastone per sorreggersi e tenersi in equilibrio.

Alle sue spalle, il campanile emerge dal grumo di case del colore della pietra. In lontananza, l'abbaiare dei cani irrompe nei pensieri nascosti, e nell'apparente quiete agreste. Il cielo è una trapunta umida e grigiastra, invia acquerugiola che si adagia sulla terra, ammorbidendola.

L'autunno del 1911 ha la superbia dell'inverno.

Durante la messa, gli occhi cerchiati e sofferenti di don Piero si erano posati sull'unico membro della famiglia Carniato. Il prete aveva notato l'insolita assenza di Luigia, che mai, e per nessuna ragione al mondo, avrebbe rinunciato a partecipare alla funzione religiosa. Per un attimo, il sacerdote aveva immaginato il trambusto che certe notizie possono provocare all'interno di una famiglia nella quale, già una pecorella si era smarrita.

Nessuno lo aveva raggiunto in chiesa, e quella mancanza non aveva fatto altro che acuire il suo malumore. Della tensione in casa si era accorto appena messo piede in cucina, un paio d'ore prima.

Suo figlio minore, quella mattina, gli era sembrato ancora più insicuro e vulnerabile. Conosceva bene Anselmo, fin da bambino gli era parso troppo sensibile; una creatura fragile, insomma, un cacasotto. Le sue continue lamentele per il duro lavoro nei campi, le sue strane idee, come schegge impazzite, gli perforano l'anima. Giuseppe è stanco delle continue lagnanze di quel ragazzo.

L'altro figlio, invece, quello più simile a lui, sia nell'aspetto fisico che nel carattere, quello che avrebbe dovuto, un giorno, prendere le redini della famiglia, era partito quasi due anni prima. A nulla erano valsi i pianti disperati della madre; Alessandro aveva deciso senza tanti tentennamenti, coerente, ancora una volta, con il suo carattere ardimentoso. Non era come Anselmo, lui.

Solo e tradito, così si era sentito Giuseppe il giorno in cui il suo primogenito aveva varcato la soglia della casa dove era nato, tenendo stretta nella mano la maniglia consunta di una piccola valigia contenente pochi indumenti. 

La tesa del cappello nasconde occhi e pensieri nebulosi. Borbotta sotto i folti baffi, sempre più stanco; vuole solo raggiungere casa sua, stendere la gamba dolente sulla pietra calda del camino e fumarsi un sigaro.

Immerso nel tumulto dei ricordi, dei pensieri e delle cose da fare subito dopo pranzo, nemmeno si accorge della figura massiccia che avanza verso di lui. 

Francesco Buosi, confinante e lontano parente gli si para davanti.

Gnanca te me saudi, eh Beppo?  

 Giuseppe alza di scatto il cappello, un gesto automatico, ma il suo sguardo è vuoto.

Sta bon Checo, sta bon... –  bofonchia, la voce rauca. – Questa giornata è iniziata male.

L'uomo cerca un sostegno sicuro nel bastone che conficca con forza nel terreno. Si liscia i favoriti arruffati, pensando che non ha voglia di parlare con nessuno, nemmeno con Checo, suo coetaneo ma con molti più chili addosso, che lo sta scrutando con un sorriso burlesco sotto i baffi ingialliti, testimoni impietosi di anni di fumo. Ha un naso bitorzoluto e un alito che conferma l'attaccamento al buon vino. Si conoscono da sempre, legati da un rapporto leale di vicinato e di antica amicizia, fondato sul reciproco rispetto. Ognuno si occupa delle proprie cose, dei campi, dei raccolti. Mai uno screzio, un diverbio.

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