L'ultimo saluto

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"I vivi chiudono gli occhi ai morti.

I morti aprono gli occhi ai vivi."

Antico proverbio africano

Ponzano Veneto

Luglio 1913

Un caldo soffocante, simile a una morsa di ferro, attutisce il rumore delle ruote che trascinano la bara sulla terra arida e screpolata. Il corteo funebre, lento e silenzioso, si snoda lungo la stradina polverosa, accompagnato dal pianto sommesso delle donne. Un mazzolino di fiori selvatici, lanciato da una bambina, si posa delicatamente sulla bara. In cielo, i raggi di un sole spietato, sembra vogliano incenerire ogni cosa.

Luigia Meneghello in Carniato, una vita dedicata alla famiglia, sta compiendo il suo ultimo viaggio. Dai campi di mais, ormai secchi e spaccati dall'arsura, si leva un'atmosfera di tristezza e di rassegnazione.

Estati e autunni e inverni e poi ancora primavere si erano rincorsi cambiando colori e odori mentre lei, instancabile, lavorava la terra, allevava i figli. Viveva. Lì, in quello che era stato il suo mondo. Semplicemente.

 La chiesa di San Leonardo, dove si era unita in matrimonio in una limpida giornata di maggio, è gremita di gente arrivata anche dalle vicine frazioni, in particolare da Merlengo dove Luigia era nata. Nell'aria, l'aroma dell'incenso si mescola all'odore familiare della campagna di cui ogni cristiano presente ne è intriso. Dalla porta socchiusa della sacrestia, don Piero scruta i banchi affollati, provando un'intima soddisfazione. Il rito funebre può iniziare.

I rintocchi delle campane, come lamenti sommessi che si disperdono nel vento, guidano il feretro verso la sua ultima dimora. Vicino a lei, una semplice croce bianca con inciso un solo nome: Maria.

Giuseppe, appoggiato al bastone, fissa la fossa come se volesse imprimersela nella mente. La terra secca, gettata a badilate, sembra voler inghiottire per sempre la sua compagna di una vita. Le parole di don Piero, le preghiere rivolte al cielo, gli arrivano come un'eco lontana. Sente un nodo in gola, un peso opprimente sul cuore. Adesso, finalmente, può piangere le sue lacrime, sa che presto la raggiungerà.

Don Piero gli si avvicina. Rivoli di sudore colano sulle pieghe del volto dell'anziano prete, si tampona la fronte con il fazzoletto. Giuseppe preme al petto il cappello di paglia, durante il rito non è riuscito a versare nemmeno una lacrima.

Improvvisamente il piccolo cimitero si svuota lentamente, come se la vita stessa si stesse ritirando. Se ne sono andati tutti. Con loro solo Tommaso, che osserva la scena con un'espressione seria, e il custode del camposanto con la pala ancora in mano.

Il prete passa i paramenti sacri al chierichetto. Alza la voce, quasi urla.

– Portali in sacrestia, e dopo corri subito a casa che se quasi mesoboto!

Il ragazzino, alto e magro per la sua età, sbuffa, si porta i palmi alle orecchie.

– Ho capio, ho capio, no son sordo! Se vedemo domenega matina in cèsa, don Piero. Sia lodato Gesù Cristo...

– Sì, sì... sempre sia lodato. E varda de no far tardi come el to soito! Che in confessional, per penitenza, ti rifilo venti Pater Noster e venti Ave Maria.

Tommaso spalanca occhi e bocca in un'espressione tra stupore e sgomento. Poi, con un inchino, si allontana di corsa. 

– Tutte quelle preghiere? Ma seo deventà mato? – mugugna dandosela a gambe levate.

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