Ladro di anime

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Un olezzo di pioggia e fango invade la bottega, mescolandosi all'odore acre di grasso e gomma delle biciclette. Alcune, appese come strani animali su grossi chiodi conficcati nei muri scrostati, sono in attesa di essere riparate e lucidate.

Sbuffa, Leone. Si appoggia allo stipite della porta. Incrocia le braccia al petto, alza gli occhi a osservare un cielo di piombo. La strada si è trasformata in un torrente fangoso. Se non smette di piovere dovrò vendere la mia bicicletta, pensa mentre rientra nel piccolo negozio. Ne schioda una e la posiziona su una specie di forcella. Toglie la gomma della ruota sventrata da un pezzo di vetro.

Si concentra sul lavoro. Le mani, sporche e untuose, si muovono precise. Ha imparato questo mestiere da bambino, osservando Gervasio, l'uomo che lo ha cresciuto.

Non ha mai conosciuto i suoi veri genitori. Non sa neanche il giorno esatto della sua nascita. È stato trovato in un campo di granturco, nudo, avvolto solo da un canovaccio lercio e fogli di giornale, denutrito e senza più forza per piangere. Gervasio aveva raccolto quel fagotto di carta e lo aveva buttato nella carriola senza fare caso al flebile gemito, confuso con i passi sulla terra secca.

Ma quel lamento continuava. Un suono straziante. Sarà un gatto, aveva pensato l'uomo mentre spingeva la carriola tra le piante di mais. Incuriosito, si era deciso a guardare tra quei fogli scoloriti. Una manina era affiorata, come a chiedere aiuto. Una piccola creatura di pelle e ossa che lottava per sopravvivere lo aveva commosso fino alle lacrime. Se non lo avesse raccolto da terra come un animaletto e portato a casa, sarebbe morto nel giro di poche ore. Era un 26 di aprile. Quello è stato il giorno della sua nascita.

In municipio, Gervasio lo registrò all'anagrafe come se lo avesse partorito Virginia, sua moglie; risultava quindi essere il quinto figlio della coppia. Dopo di lui erano nati altri due figli maschi.

La decisione di chiamarlo Leone era stata presa come buon auspicio: quel mucchietto di vita doveva diventare forte come il re della savana.

A Leone non è stato mai nascosto nulla; ha sempre saputo di essere stato abbandonato in un campo di pannocchie. Ed è sempre stato grato ai suoi genitori, quelli che lo hanno fatto diventare grande, per averlo trattato come gli altri figli, anche nella miseria più nera.

A sedici anni aveva lasciato Merlengo e la sua famiglia. Aveva percorso chilometri su chilometri, nutrendosi di quello che trovava strada facendo. La stanchezza gli piegava le gambe. La fame lo dilaniava, un morso che lo attanagliava e lo spingeva a camminare sempre più determinato. Il suo fisico era esausto, i brontolii della pancia vuota rimbombavano nelle orecchie, un tamburellare che lo esasperava. Temeva che le persone udissero il rumore di quel corpo vuoto.

Qualche volta, quando davvero non ce la faceva più, si fermava a bussare alle porte di case isolate. Lo accoglievano con diffidenza, scrutandolo con occhi sospettosi. Guardavano la sua faccia scarna, sporca, e quello strabismo che lo faceva apparire ammalato. Qualcuno lo cacciava via con un brusco "Non abbiamo niente per te!", sbattendo la porta in faccia con un tonfo che risuonava nel silenzio della campagna.

Altri lo invitavano a entrare, allora sfoderava un sorriso radioso di un bambino felice, e quel modo di parlare calmo, educato. Qualche parola in dialetto veneto per far sorridere e farsi accogliere. Ci sapeva fare con le persone, Leone. Era così che le conquistava. Alla fine lo facevano dormire nei fienili, gli offrivano pane e formaggio in cambio di qualche lavoro nei campi. 

 Sostava per qualche giorno, il tempo di riacquistare un po' di forze. Poi salutava, abbracciava quelle anime buone rubate come un ladro silenzioso, colmo di gratitudine. Se ne andava con un groviglio di ricordi che custodiva come perle preziose infilate, una dopo l'altra, nella collana della sua vita.

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