1940

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Il Natale del 1940 è entrato nel regno dell'inverno portando un fardello di freddo glaciale. Uno spesso strato di neve si è posato sui tetti delle case, ha infagottato le panchine che sostano nella piazza circondata da palazzi signorili.

I rami degli alberi sembrano inchinarsi sotto il peso della soffice coltre, come braccia cadenti. Dalla fontana, posta al centro dello slargo, l'acqua si è cristallizzata in una solida lingua di ghiaccio. I bambini, avvolti in sciarpe e guanti di lana, scivolano sul manto immacolato con slitte di legno, le loro risate squillanti rompono il silenzio ovattato.

Qualcuno spala la neve fuori alle porte, creando piccoli muri pronti per essere trasformati in pupazzi. Dai comignoli si innalzano dense nuvole di fumo verso un cielo cupo: il profumo di cannella, del vin brulè e castagne arroste si unisce all'aria fredda. Alcuni ambulanti hanno allestito piccoli braceri attirando numerosi bambini infreddoliti, con le mani aperte per accogliere il frutto fumante.

Osserva i fiocchi scendere come una magia, il suo sguardo, velato da una sottile patina di nostalgia, è fisso sul vetro appannato della finestra. Ricorda i Natali della sua infanzia, quando la neve copriva i campi e la terra riposava in attesa di essere nuovamente lavorata.

Emette un profondo sospiro. Lasciare la campagna, la casa dei suoi nonni, i suoi ricordi, per trasferirsi in città, è stato come atterrare su un altro pianeta. Il centro storico, con le sue botteghe colorate e il continuo viavai di gente, le sembra un quadro animato, sempre in movimento. Piazza Pola, raccolta e intima, ricorda i campielli veneziani, con le sue calli e vicoli tortuosi come Via Barberia, quasi un passaggio segreto che conduce verso il cuore pulsante di Treviso: Piazza dei Signori.

Avvolta in uno scialle di morbida lana, Rosa scruta le persone che si affrettano stringendosi nei cappotti. La guerra sembra un'eco lontana. I giornali continuano a dare notizie ottimistiche. Mussolini, sempre sicuro davanti alla folla osannante, aveva promesso "tempi brevi", convinto di vincere la guerra entro pochi mesi.

Ora, il nuovo panorama cittadino, lentamente è entrato a far parte della sua vita, migliorandola. Socchiude per un attimo gli occhi. Il distacco dalle sue origini è una spina conficcata nell'anima.

Aveva chiuso la porta tarlata con le lacrime agli occhi, quasi l'aveva accarezzata ricordando i giochi nel fienile, le lunghe chiacchierate con Teresina sedute sotto il vecchio fico. Quel fico, che aveva visto nascere e crescere tre generazioni, sembrava piangere con lei. Rosa aveva alzato lo sguardo sui rami possenti, quante volte lei e Antonio erano saliti in attesa di vedere arrivare Anselmo e la sua fedele cavalla, Bianca. Un frammento della sua vita, forse il più felice, resterà per sempre racchiuso tra quei muri. La cascina, un tempo brulicante di vita, le era sembrata un nido vuoto, avvolta in un silenzio innaturale.

Niente era stato portato via, nessun mobile, nessun oggetto, ogni cosa doveva rimanere tra quelle mura, come un museo dei ricordi, un santuario da custodire gelosamente. Lì c'erano le impronte di Luigia e Giuseppe, di Agnese e Anselmo, di Antonio, di Teresina, di Giovanna. Oltre quella porta resterà per sempre l'odore di fuliggine, di bollito, di terra e sudore.

Leone, con Giuliana adagiata sulla spalla e la manina di Luciano stretta nella sua, con uno sguardo pieno di comprensione, si era stretto a lei. Aveva sempre ammirato la sua forza, ma in quel momento la sua fragilità avava varcato la barriera della resilienza.

– Vieni via, Rosa, ci torniamo in estate, quando in città farà troppo caldo. Questa sarà sempre la tua casa. Vedrai che in quella nuova ti troverai bene, ci sono tutte le comodità moderne, ti rendi conto? Abbiamo la vasca da bagno!

– Ma io sono nata qui! - gli aveva risposto tra i singhiozzi. - I miei nonni hanno costruito questa casa con le loro mani!

Luciano, con la spontaneità dei bambini, si era avvicinato a sua madre. Non capiva bene cosa stesse succedendo, ma sapeva che la mamma era triste.

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