Il ritorno

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La giornata è bellissima, una di quelle splendide giornate di settembre che sembrano il canto del cigno dell'estate che se na va.

Il primo ad accorgersi di quell'uomo in divisa è Francesco, otto anni. Guance arrossate dal sole, sguardo severo e il volto senza sorriso, sono paralizzati sul soldato solitario che cammina lentamente lungo la stradina di campagna. 

Non ha mai visto un uomo con quei vestiti prima. Non ha mai sentito parlare di guerra, solo di un certo Mussolini che aveva invaso una terra lontana, troppo lontana per le famiglie di contadini che passano ogni santo giorno della loro vita a lavorare nei campi. Qualcuno, ogni tanto, tra una trebbiatura, una mietitura o durante la vendemmia, accenna qualche strofa di "Giovinezza", l'inno trionfale del Partito Nazionale Fascista. Sono in molti a non conoscere il testo per intero, ma la melodia riporta alla gioventù, al periodo più bello della vita.

Francesco avverte il suo piccolo cuore battere forte man mano che il soldato si avvicina. Una sensazione che non sa riconoscere. Che non sa nemmeno spiegarsi. La paura, quella vera, quella che ferma il respiro e attanaglia l'anima, è un concetto nuovo alla sua innocenza infantile.

Un'ondata di emozioni sconosciute lo fa stringere istintivamente al corpo massiccio del padre. L'uniforme del soldato, simbolo di autorità, getta un'ombra sull'allegra atmosfera rurale.

– Papà... – sussurra tirando la manica della camicia di Giobatta. – Papà, chi è quello?

Giobatta ignora le richieste del figlio, troppo intento a divorare fette di polenta e salame non dà retta al bambino che lo strattona ripetutamente per la manica. Alla fine, infastidito, si gira verso il figlio.

– Checo! Te ga becà 'na vespa, par caso? – Risponde aspramente.

Papà varda, se drio rivar uno che nol me piase... – Insiste Francesco, sempre più scuro in viso.

– Rosaaa... Rosaaa... 

La voce echeggia nell'aria, arriva come un grido di aiuto, sconvolgendo l'atmosfera spensierata del cortile. 

Le chiacchiere gioiose, gli schiamazzi dei bambini si interrompono. Respiri che si fermano. Pupille che si dilatano. Giobatta, immobile, rimane con un pezzo di polenta tra le labbra. Francesco, sempre più spaventato, cerca rifugio sotto il tavolo, seguito a ruota da tutti gli altri bambini che si stringono tra loro, silenziosi e pieni di paura. Maria, con la mano si copre la bocca per soffocare un grido. I ricordi della Prima Guerra Mondiale ancora la perseguitano, le uniformi dei todeschi (così venivano chiamati gli invasori austriaci) indossavano una divisa molto simile a quella che si avvicina sempre più a loro. Virginia, senza dire una parola, si precipita al piano di sopra, il pensiero di Rosa e di Luciano che stanno riposando, prende il sopravvento sul timore. 

Leone si alza di scatto dalla sedia. Lo sguardo è fisso su quella figura scarna, su quel volto che stenta a riconoscere. Va incontro dapprima cauto, titubante, stringendo gli occhi per vedere più chiaramente. Di colpo, in quel volto scavato, sofferente, riconosce il fratello di sua moglie.

– È Antonio! È tornato Antonio! Grida correndo verso il cognato.

Sono uno di fronte all'altro. 

– Antonio! Sei proprio tu?– Chiede Leone ancora incredulo

Si abbracciano, si danno pacche sulle spalle, mentre volti curiosi emergono da sotto la tovaglia. Occhi spalancati, sorrisi sdentati sparsi sui visi infantili. La tensione si allenta, i presenti, dapprima titubanti, si avvicinano, senza più timore, all'uomo in uniforme. Antonio, finalmente, si ritrova circondato dal calore di volti familiari. Lo sguardo indugia sui sorrisi di benvenuto di chi lo sta accogliendo con ammirazione e rispetto. Eppure, in mezzo al gruppetto festoso, non trova l'amato volto della sorella. Si gira verso Leone, una domanda impressa sul suo volto.

– Non vedo Rosa, dov'è? – Chiede con voce carica di preoccupazione. 

Il desiderio di rivedere la sorella, di sapere di lei, gli ha cancellato la stanchezza, la sete, la fame. Il brontolio del suo stomaco vuoto, è coperto dal brusio, dai rumori che sono tornati a riempire il cortile.

Leone, con un gesto rapido, si carica sulle spalle lo zaino di Antonio.

– Rosa sta riposando. Vieni a sederti, - lo esorta – sembri esausto. Hai bisogno di recuperare le forze.

 Antonio lo segue in silenzio, le braccia pesanti per la fatica lungo i fianchi, la camicia color kaki impregnata di sudore. I bambini gli saltellano attorno, lo guardano con un misto di curiosità e reverenza. Gli occhi di Antonio si posano sui contorni familiari della cascina, un lungo sospiro gli sfugge dalle labbra. È a casa. È tra la sua gente, nella sua terra. 

La terribile esperienza vissuta in Africa, di una guerra combattuta contro un popolo debole, indifeso, privo di armamenti adeguati e terrorizzato dall'invasione di una nazione di "italiani brava gente", sottoposto all'arroganza e alla brutalità dell'imperialismo tricolore, ora gli appare come un ricordo nebuloso, lontanissimo. Viene sopraffatto da un'ondata di sollievo e incredulità. Eppure, sono passati solo pochi giorni da quando il suo capitano gli aveva concesso il meritato onore di un congedo. 

Antonio si lascia cadere sulla panca a lui tanto familiare, testimone silenziosa di serate estive tranquille, passate ad assaporare gli odori della terra e la brezza, che in alcune sere arriva dalle Prealpi. Non gli sembra vero di essere proprio lì, in quel cortile, il suo piccolo mondo. Alza lo sguardo verso il cielo e subito il pensiero corre ad Agnese, sua madre, e ad Anselmo, suo padre. E non può sapere che anche Teresina si è unita a loro.

Sono arrivato giusto in tempo per la vendemmia, mormora tra sé, con la voce appena un sussurro. Mi sembra un sogno.

Lo sguardo si sposta velocemente sui bambini tornati a pigiare l'uva; un frastuono festoso che risuona come un'eco lontana nella memoria di Antonio, un suono a cui le sue orecchie ormai non sono più abituate. È tutto talmente diverso, tutto così vivace e dolcemente reale che si sente quasi mancare: per la stanchezza, per la felicità di cui non ricordava il dolce sapore. Leone gli mette un piatto di salame e formaggio davanti agli occhi, poi chiama una fanciulla, le chiede di andare a prendere un altro fiasco di vino.

– Ecco il vino! – esclama la ragazza con voce allegra mentre riempie il bicchiere di Antonio. Una voce familiare, un suono che lo fa trasalire e lo riporta indietro nel tempo, al giorno del matrimonio di Rosa. Sente il cuore saltare un battito.

– Ma tu... tu sei Giuseppina! – Esclama spalancando gli occhi.

 Dopo quel loro primo incontro, un momento fugace alla festa delle nozze di Rosa e Leone, polvere e fatica di anni trascorsi in Africa avevano completamente cancellato quel ricordo dalla mente di Antonio. Eppure, ora, in piedi davanti a lui, Giuseppina è radiosa, nel fresco abito di cotone che accentua le sue morbide curve. Per Giuseppina, invece, quell'unico ballo era rimasto impresso indelebilmente nella memoria. Un pensiero che l'aveva accompagnata durante le notti irrequiete pensando al suo soldato e fantasticando su di loro.

Lei abbassa timidamente lo sguardo, una spolverata purpurea le incendia il bel volto. Inchioda i suoi occhi di un incredibile verde scuro, incorniciati da folte ciglia corvine, in quelli di Antonio, di un nocciola profondo che quasi si perde nella pelle scura.

–Siediti, Giuseppina, raccontami cosa hai fatto in questi anni...

Antonio porta una fetta di formaggio alla bocca senza distogliere lo sguardo da quel volto levigato, dalle spalle scoperte e quel seno che si intravede appena tra le pieghe del suo abito.

La ragazza accoglie la richiesta con il cuore in tumulto. Aveva sperato nel ritorno di Antonio, lo aveva sognato, agognato ogni mattina al suo risveglio. Ma ora, trovarsi lì di fronte a lui, a pochi centimetri, le sembra incredibile.

Leone scruta i due ragazzi, ne coglie il momento magico, l'intesa speciale che elettrizza i loro sguardi. Con un sospiro impercettibile, e un sorriso discreto sulle labbra, si alza dalla sedia, si allontana accompagnato dai canti e dalle risa dei ragazzini immersi fino alle ginocchia nei catini colmi dei polposi acini scuri; il prezioso succo dell'uva viene raccolto in grandi secchi di latta.

L'odore del mosto fresco, dolce e acre al tempo stesso, riempie le narici e pervade l'atmosfera, aleggia nell'aria, genera sensazioni che resteranno per sempre nei ricordi di chi ha vissuto quei momenti unici, tramandati di generazione in generazione.



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