Africa - Italia, il ritorno

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È l'alba del 26 aprile 1939. Il cielo di Venezia si tinge di delicati colori pastello, come un dipinto appena abbozzato. L'aria frizzante, impregnata di salsedine e profumi di mare, promette una primavera tiepida. Lo stridio dei gabbiani reali, si mescola con il batter dei remi nell'acqua calma del Canal Grande.

Il viso è tirato, occhiaie bluastre cerchiano gli occhi, segnati da uno strabismo leggero che ne addolcisce lo sguardo. I folti baffi scuri nascondono labbra appena socchiuse in un sorriso stanco. Nella mano stringe una valigia in cuoio pregiato, che si lega perfettamente all'elegante abito grigio scuro. 

 Oggi è il suo compleanno, e nel riflesso della vetrata, non riconosce più l'uomo che pochi giorni prima costruiva case sotto il sole africano, sudato e impolverato. Gli abiti dal taglio sobrio, l'aria da gentiluomo, sono una nuova veste per un sogno che sta per realizzarsi. Tornare dai suoi figli, conoscere la piccola Giuliana e abbracciare la sua Rosa.

Un manifesto propagandistico, con l'immagine di un giovane muscoloso che saluta romano, campeggia sulla parete. Leone lo ignora, si dirige con passo sicuro verso il binario dodici. Tra le persone in attesa, i suoi occhi ambrati incontrano quelli verdi smeraldo di una donna. Indossa un abito in panno lana, con una giacchina stretta in vita e gonna sotto il ginocchio. Il caschetto nero è parzialmente coperto da un cappello a falda larga di un verde scuro in abbinamento al colore dell'abito. Non fa caso, Leone, al brivido che lo percorre.
Sarà la stanchezza, si dice mentre scruta le rotaie lungo il binario ancora vuoto.

La Stazione Ferroviaria Santa Lucia, dedicata alla santa di Siracusa, le cui spoglie risiedono dal 1204 a Venezia, è ancora avvolta in un silenzio ovattato. Il muso arrotondato e aereodinamico della Littorina appare all'improvviso.
Una lussuosa modernità per facoltosi viaggiatori che prendono posto su comodi sedili imbottiti. Leone sistema la valigia sulla bagagliera che corre lungo tutto il perimetro della carrozza. Pochi minuti, il rumore dell'automotrice si mescola al fischio del capotreno. Il veicolo percorre lentamente il Ponte Littorio, ora Ponte della Libertà, un imponente arco di cemento segna l'inizio di un nuovo capitolo della sua vita.
La prima fermata è Porto Marghera, quella successiva Venezia-Mestre.
Il finestrino è un'enorme lente di ingrandimento, sul paesaggio che si svela come un dipinto impressionista: barene verdeggianti punteggiate da canneti, canali che si snodano tra le isole, e la città di Venezia che si dilegua alle spalle del convoglio, con le sue cupole e i suoi campanili.

Finalmente, pensa Leone mentre si toglie la giacca. Le mani, leggermente sudate, tremano per l'emozione; un'ora lo separa da Treviso. Appoggia la nuca allo schienale, emette un lungo sospiro. Socchiude gli occhi, esausto. Nonostante la notte trascorsa in una pensione a Venezia, la stanchezza del lungo viaggio sul piroscafo "Toscana" non lo ha abbandonato.
Il rumore ritmico dei binari e il leggero ondeggiamento del treno lo cullano in un dolce torpore. L'odore salmastro del mare ancora impresso sui suoi vestiti lo riporta con la mente alle notti stellate passate a pensare a questo momento, al suo ritorno inaspettato. Una sorpresa per il compleanno di Rosa.

Un ticchettio di tacchi femminili risuona sul pavimento in linoleum. Una coppia distinta prende posto di fronte a Leone. L'uomo, un signore dai capelli brizzolati e dall'aria distinta, aiuta la donna a sistemare l'elegante soprabito. Lei, i suoi occhi verdi fissi su Leone, sembra assorta in un ricordo. Un cenno di saluto, poi, con gesti lenti, quasi rituali, si sistema la gonna, prende dalla borsetta un piccolo specchio, si liscia le sopracciglia, passa sulle labbra il rossetto.
Leone avverte un fremito di disagio, gira il capo verso il finestrino.
Un profumo intenso di gelsomino gli solletica le narici. Si sente osservato. Vorrebbe alzarsi e cambiare posto ma ormai la carrozza è al completo. Intanto il signore brizzolato si accende un sigaro, sventola piano il cerino per spegnerlo. I baffi spruzzati di grigio hanno un fremito di piacere.

– Tesoro, – sussurra all'orecchio della donna, – ho l'impressione di avere già visto quella persona, mi ricorda qualcuno. Per caso lo conosci?

– No, – risponde scuotendo la testa – mai visto in vita mia...

– Chiedo scusa, signore, mia moglie e io abbiamo la sensazione di averla già incontrata...

– Ottavio! – esclama lei in tono seccato. – Ti ho detto che non lo conosco!

 Leone si gira, incrocia nuovamente lo sguardo della donna. Scuote leggermente la testa. 

– Non credo. Sono stato due anni in Africa. – Risponde con un sorriso cortese ma deciso, cercando di dissimulare la strana sensazione che lo pervade. 

– Allora le chiedo umilmente scusa per il disturbo. In ogni caso mi presento, Ottavio Buosi e lei – voltandosi verso la donna – è la  mia signora, Giovanna Tesser, in Buosi, naturalmente.

Leone sembra scuotersi da un lungo letargo. Ha un sobbalzo. Ora ricorda. Si batte una mano sulla fronte. Quasi urla.

– Ma certo che ci conosciamo, avvocato Buosi!

– Notaio, per l'esattezza... 

– Lei... lei mi ha portato la sua bicicletta a riparare! Ora ricordo tutto! – esclama Leone, gli occhi spalancati dalla sorpresa. Il vagone del treno che sembra improvvisamente più piccolo e soffocante.

Ottavio Buosi si passa una mano sul mento, rotea gli occhi. Si gira a guardare Giovanna come a cercare una risposta da dare a Leone. Poi un flash, un ricordo che gli appare improvviso come un lampo. 

– Ecco svelato il mistero, lo avevo detto io che era un volto conosciuto! – esclama guardando la moglie. Poi, si rivolge a Leone. 

– Mi deve scusare, quel giorno Giovanna non stava bene, sa, era in attesa della nostra secondogenita, Sofia. Ricordi, tesoro? 

Giovanna annuisce, le labbra si allargano in un sorriso, ma quell'attimo di dolce ricordo dura pochissimo. Le mani un poco tremano, cercano quelle del marito.

– È stata una gravidanza difficile. Come la prima... – La voce si incrina, si interrompe. Lo sguardo si perde nel vuoto. I ricordi sono come schegge impazzite che ancora le perforano il cuore.

– Giovanna, tesoro, stai tranquilla. Adesso passa, ti prego, non pensarci più. Le nostre due bambine sono sane e bellissime. Questo conta, adesso.

L'atmosfera nel vagone si fa pesante. Leone osserva la scena, immobile come una statua. Il cuore sbatte contro la cassa toracica con violenza. Il nome risuona nella sua mente come un'eco.

Giovanna Tesser.

Un brivido gli raggela il sangue. Nella mente, come un vortice, rimbalzano le parole di Rosa: Quel matrimonio è stato una tragedia, una vera e propria tragedia.

Un colpo di tosse rompe il silenzio. Si strofina le mani sudaticce sul panciotto.

– Ho compreso bene, signora? – chiede Leone, la voce rauca. – Lei è... Giovanna Tesser, la figlia del noto ristoratore Mario Tesser?

Giovanna sgrana i suoi occhi verdi sul volto incredulo di Leone.

– Sì, sono io. Sono la figlia di Mario Tesser. Ma... lei...  – le parole si perdono nell'aria densa di fumo del vagone, e dal brusio dei passeggeri.

Le emozioni travolgono Ottavio e Giovanna, si riflettono negli occhi verdi della donna, mentre scruta quel volto sconosciuto ma che ora le sembra così vicino al suo passato. 

Ottavio sa tutto. Sa di Anselmo, sa di quel matrimonio sfortunato e sa cosa ha passato lei; sa dei lunghi mesi chiusa nella stanza da letto, e sa della sua malattia. 

Leone deglutisce a vuoto.

– Sono Leone Benetton, il marito di Rosa. – dice con voce rotta dall'emozione.

Giovanna ha un singulto, Ottavio le circonda le spalle con un braccio. La sua mano, calda e rassicurante, le stringe la spalla. In quel momento, il tempo sembra fermarsi. 

– Rosa... la mia piccola Rosa. – sussurra con incredulità.

Poi si alza di scatto, gli occhi lucidi di lacrime, si avvicina a Leone già in piedi sotto lo sguardo benevolo di Ottavio. Giovanna lo abbraccia, ma il suo pensiero è tutto per Rosa e per ciò che racchiude quel nome.



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