64.2 Welcome to the final show

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Kai

Juliet mi aveva parlato di guardie corrotte che erano dalla loro parte. Ed è mentre mi impediscono di parlare con Angel e dirgli di cercare Dean, che me ne accorgo.

Qualcuno ha aperto la mia macchina, infilandoci dei borsoni con chissà cosa dentro. Soldi, armi?

Sono fottuto. La mia mente inizia ad ingranare mille pensieri diversi nello stesso minuto.
Provo a pensare a come buttarmi dall'auto in corsa, nonostante le mani legate. Potrei cominciare ad urlare per infastidirli al punto da farli scendere dall'auto e farli avvicinare il giusto per potergli tirare un calcio e scappare via. Rischierei una pallottola dietro la schiena, però. Potrei aspettare di sapere il mio verdetto, capire come mi hanno incastrato e agire di conseguenza.

Decido, quindi, di parlare.
«Cos'è che mi incrimina?», domando dal sedile posteriore, con le manette a stringermi i polsi.

Rapina a mano armata.
Ne ho fatte tante. Troppe. Ho perso addirittura il conto. Ma in nessuna di queste sono mai stato scoperto. D'altronde non agivo mai in posti dove sapevo mi avrebbero catturato.
Stazioni di benzina, negozietti, tabacchi sempre senza videocamere. Grazie a Tom, che pensa sempre a tutto, sceglievamo i posti isolati e che quindi non possedevano camere di sicurezza per tutta la zona.

Abbiamo sempre agito da stronzi astuti. Non eravamo certo principianti.

«C'è un chiaro video che ti ritrae.»

Certo, proprio chiaro.

«Video di quando?»

Perché se risale ad oggi mi basterà chiedere ad un avvocato di ritrovare i video di sorveglianza del ristorante dove sono stato o del palazzo di casa nostra, e sarò scagionato.

Eppure, l'altra parte del mio cervello mi dice che non è così facile come sembra. È tutto così surreale.

Difatti, non rispondono.

«Ho diritto ad un avvocato, giusto?», riprendo.

Altra domanda sospesa in aria.

Abbandono il capo allo schienale, sbuffando appena. Mi hanno incastrato. Non c'è modo di uscirne indenne da tutta questa situazione.

È questo quello che penso appena arriviamo alla stazione di polizia. Mi guardo intorno.
Cerco di scrutare il più possibile le facce degli agenti che mi stanno addosso, cerco di captare quello che si dicono con gli occhi e tramite parole per me incomprensibili.

L'atmosfera è densa di tensione. Come se stessi camminando sul filo del rasoio, pronto per precipitare giù da un momento all'altro.

Sono fottuto.

Potrei aggrapparmi alla speranza, ma la realtà che mi si presenta davanti mi rimette i piedi per terra.
Non posso fare niente.

Parlottano tra loro, in modo piuttosto animato, mentre mi scortano non so dove. Oppongo resistenza finché posso.

«È questa la solita prassi?», mormoro stizzito.
«Mi prendete, mi arrestate come se nulla fosse e mi trascinate da una parte all'altra come un carrello del supermercato in modo misterioso. Siete in combutta con quella stronza, non è così?», alzo la voce, ricevendo una stretta più forte del solito al braccio. Mi conficcano le unghie fino a graffiarmi.

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