Non sarò la tua bambola

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Quando l’auto si ferma, scendo e alzo la testa per osservare meglio l’alto palazzo che mi ritrovo davanti. Grazie alle ricerche che ho fatto durante il tragitto, so che la sede centrale della Harris Enterprises si trova a Seattle, questa è solo una piccola succursale. Logan sta cercando di espandersi in più zone, tra cui Las Vegas, appunto.
Mentre salgo le scale e raggiungo l’ampia porta d’ingresso, mi chiedo per quale motivo abbia scelto proprio Las Vegas. Una parte di me crede che porti dei segreti con lui, e che questa scelta sia solo un tassello del suo inquietante piano.
Piano di cui adesso faccio parte, a quanto pare.
Arrivo alla hall, e guardandomi intorno noto la numerosa quantità di segretarie con i capelli rossi. È strano, suppongo, il rosso non è poi un colore di capelli così comune. Io mi sono sempre sentita diversa a causa dei miei capelli, eppure in quell’ufficio sembravamo tante bambole tutte uguali.
Le ragazze mi squadrano, forse per via del mio abbigliamento, oppure perché sembro l’ennesima copia.
Tutto questo inizia ad essere sempre più strano, forse Daniel aveva ragione, è una pessima idea.
Ma ormai ci sono, scappare con la coda fra le gambe non è un’opzione.
Comunico il mio nome alla reception e mi siedo in attesa che mi chiamino.
Non riesco a stare seduta su questa stupida sedia, eppure è comoda, è ovvio.
Io però non faccio che muovermi, accavallo le gambe, prima la destra sulla sinistra e poi viceversa, di continuo. Mi giro i pollici, sciolgo e rifaccio da capo la treccia che lega i miei capelli. Insomma, sembro una pazza sotto effetto di stupefacenti forse, e per questo le segretarie continuano a osservarmi e a ridere sotto i baffi.
<Signorina Martin, il signor Harris può riceverla.>
Finalmente.
Mi alzo dalla sedia e tengo alto il mento, raddrizzo le spalle e cammino sicura.
Finora in quell’ufficio mi hanno vista come un cucciolo impaurito, ma lui no, a lui non permetterò di vedermi così. Altrimenti mi mangerà, come fanno tutti i lupi con le prende piccole e spaventate.
La segretaria che mi accompagna ha lunghi capelli ricci, li tiene sciolti permettendogli di ondeggiare a destra e a sinistra mentre cammina. Sembra quasi un fuoco che arde. Vorrei indossare anch’io così il rosso dei miei capelli, invece a me ha reso sempre insicura.
La ragazza apre una grande porta ed io resto qualche passo indietro.
<È qui, signore.>
Nessuna voce risponde, ma vedo gli occhi della ragazza scendere dall’alto verso il basso, poi si morde il labbro e mi fa cenno di entrare.
Entro in silenzio, guardandomi intorno. Ampie vetrate, una scrivania di legno scuro, una gigantesca poltrona dietro di essa, e due divani bianchi perfettamente intonati alle pareti. Nient’altro. Assolutamente niente.
Come se non volesse marchiare quel luogo, come se non volesse lasciare traccia del suo passaggio.
Niente a che vedere con il mio ufficio al casinò, dove le pareti sono rosa cipria, i tappeti shaggy bianchi ricoprono il pavimento, e su ogni parente sono appese numerose fotografie e quadri colorati.
Quel posto è mio, questo invece sembra di un fantasma.
<Ti piace?>
Solo in quel momento mi rendo conto della sua presenza, in piedi davanti alla scrivania, la braccia incrociate sul petto.
I suoi occhi sono su di me e mi scrutano con attenzione, probabilmente lo fanno da quando sono entrata. Indossa un completo nero, e come sempre la testa del serpente esce dal colletto della camicia.
<No.>
Dico fredda, puntando gli occhi su di lui.
<Perché no?>
Sorride di mezzo lato, poi prende un bicchiere con un liquido scuro da sopra la scrivania e se lo porta alle labbra.
<È anonimo.>
Dico, osservandolo mentre si lecca le labbra e appoggia nuovamente il bicchiere.
<Anonimo.>
Ripete, guardandosi intorno.
<Vuoi da bere?>
<No.>
<Dell’acqua, magari.>
<No.>
<Qualcosa da mangiare?>
<No.>
<Allora che cosa vuoi, Amanda Martin?>
Per qualche strana ragione la sua domanda mi zittisce e mi spinge a deglutire.
Incrocio le braccia al petto e sposto il peso sulla gamba destra, un’abitudine che mi porto dietro da qualche anno.
<Accetto l’accordo.>
Il suo sguardo scatta di nuovo su di me, e una scintilla attraversa i suoi occhi.
<Ho delle regole che dovrai rispettare, però.>
<Ah si? E quali sarebbero?>
Mi avvicino a lui a passo svelto, sperando che la vicinanza mi impedisca di sentirmi ancora così piccola davanti a lui.
<Numero uno, non sarò a tua disposizione quando e come lo vorrai. Ho una vita mia, un lavoro e degli impegni. Non sarò la tua bambola.>
Si stacca dalla scrivania e fa un passo verso di me.
<Che altro?>
<Non potrai toccarmi. Mai. Non devi neppure pensarci.>
Si avvicina ancora ed io tento di resistere all’istinto di arretrare.
<Sei sicura?>
<Sicurissima.>
Arriva difronte a me, così vicino che sento il suo profumo, così tanto che mi basterebbe alzare una mano per toccarlo.
<Posso stare alle tue regole>
Dice, sorridendo e inclinando la testa di lato.
<Ma se accetti l’accordo sarai mia, asso. In un modo o nell’altro.>
Mi alzo in punta di piedi e mi avvicino al suo viso, talmente vicina che le nostre labbra quasi si sfiorano.
<Non sarò mai tua, serpente velenoso.>
Mi allontano e mi giro per dirigermi alla porta.
<Fammi mandare tutti i dettagli dalla tua segretaria.>
Esco a testa alta, ma quando chiudo la porta alle mie spalle sento il bisogno di inspirare ed espirare con calma. Alzo lo sguardo e intravedo la ragazza che prima mi ha accompagnata, mi guarda e sorride divertita.
Prendo il cellulare dalla tasca e fingo di digitare un numero, poi me lo porto all’orecchio e inizio a camminare verso l’uscita.
<Dice che non gli piacciono più i capelli rossi, a quanto pare adesso preferisce le bionde, è da non credere.>
Dico, quando passo davanti alla sua scrivania. Entro nell’ascensore, e mentre aspetto la chiusura delle porte la vedo prendersi una ciocca di capelli fra le dita, la osserva e poi corre via.
Quando faccio ritorno al casinò, la serata è al pieno del suo svolgimento.
Mi avvicino al bar, mi siedo su uno degli sgabelli e faccio un cenno a Daniel, così da avvertirlo del mio ritorno.
Mentre lo aspetto, mi guardo intorno. Lo spettacolo è ormai finito, ma le partite di poker dureranno ancora per parecchie ore. Guardo con attenzione i giocatori, osservo i loro volti e uno schema invisibile appare davanti a me.
So riconoscere un giocatore che possiede buone carte, di solito. Siede spavaldo, lascia le carte sul tavolo invece di tenerle in mano, giocherella con le fiches e tenta di nascondere un sorriso.
So anche riconoscere un giocatore con delle pessime carte, però, proprio come l’uomo al tavolo due. La sua fronte è leggermente sudata, tiene strette in mano le carte, il suo sguardo si muove svelto tra le puntate sul tavolo e le fiches che gli sono rimaste. Calcola silenziosamente se conviene fermarsi o rischiare. Probabilmente sceglierà la seconda, e perderà tutti i suoi soldi.
Io so bene quanto sia importante camuffare le proprie emozioni durante una partita, so come indossare perfettamente la faccia da poker.
Non fare trapelare niente, Amanda, neppure la più piccola delle emozioni.
I ricordi riappaiono sempre con violenza quando mi perdo a osservare una partita, quando tengo in mano un mazzo di carte, quando sento il rumore delle fiches che sbattono sul tavolo.
Io però quei ricordi non li voglio più.
<Com’è andata?>
Daniel poggia un bicchiere di vino rosso davanti al mio naso, e mi strappa dal tornado di emozioni che si stava scatenando in me.
Prima di parlare prendo il bicchiere e butto giù un grande sorso, sotto il suo sguardo quasi scioccato.
<Non mi sembra un buon segno.>
Passo la lingua sulle labbra per pulirle dal vino, schiocco la lingua e lo guardo.
<È uno schifoso serpente velenoso.>
<Ti ha fatto del male?>
Il suo sguardo si allarma di colpo, ed io quasi mi metto a ridere.
<Secondo te gli permetterei di mettermi le mani addosso?>
Sorride e rilassa le spalle.
<No, è ovvio, sei troppo cazzuta.>
Sorrido a mia volta, nonostante entrambi sappiamo che non è affatto così.
Non sono per niente cazzuta, non sono in grado di difendermi.
Sono esile, magra, piccola e fragile. Ho la forza di un uccellino, o di qualsiasi altro essere vivente debole presente sulla Terra.
Se qualcuno mi aggredisse probabilmente mi spezzerei all’istante come un ramoscello secco, soprattutto se dovesse essere qualcuno della portata di Logan.
Lotterei, però, almeno ci proverei.
<Non devi farlo per forza Mandy, lo sai.>
<Si, invece, devo farlo.>
Il mio telefono vibra all’interno della mia tasca, lo prendo e apprendo che è un messaggio da parte di papà, mi chiede di raggiungerlo nel suo ufficio.
Finisco in un solo sorso il mio bicchiere di vino, e senza neppure salutare Daniel mi dirigo verso l’ufficio di papà.
Quando entro lo trovo con la testa piegata su alcuni documenti, alza un dito per dirmi di aspettare, perciò chiudo la porta e mi lascio cadere su una delle sedie davanti alla scrivania. Quando finisce con i documenti alza il capo, si toglie gli occhiali da lettura e incrocia le dita sul tavolo.
<So di essere stato un po' severo, questa mattina.>
<Non importa.>
Lui sorride lievemente e inclina il capo.
<Sai che non ti chiederei mai di accettare quell’accordo, vero?>
<Lo so, papà.>
Ed è vero, lui non me lo chiederebbe mai, io però lo farei. Per lui, per il casinò, per noi. Io farei di tutto.
<Troverò un modo per ridare i soldi a Logan, tu non devi preoccuparti.>
Mi alzo i piedi e gli sorrido.
<D’accordo.>
Giro intorno alla scrivania e gli poso un leggero bacio sulla fronte.
<Sono molto stanca, salgo in camera.>
<Va bene.>
Mi dirigo verso la porta e la apro.
<Buona notte, papà.>
<Buona notte, tesoro.>
Chiudo la porta e mi avvio verso l’ascensore, premo il pulsante e lo aspetto. Quando arriva mi ci fiondo dentro e sospiro.
Mi trascino per tutto il corridoio fino ad arrivare alla mia camera, quando entro resto per un attimo in piedi all’ingresso, per godermi la pace che solo la mia stanza sa darmi.
Il telefono vibra nella tasca, lo estraggo preparandomi ad un qualche messaggio di Betty o di Daniel, ma non è nessuno dei due. È una email.

Da: Logan Harris
A: Amanda Matin
Oggetto: Evento di beneficenza

Un’auto verrà a prenderti domani sera alle 21:00.
Non sono ammessi ritardi.
Indossa un abito da sera, non quei vecchi jeans.

Mi lascio cadere sul pavimento, vorrei urlare. Credevo di essere stata chiara:  non sarò a tua disposizione quando e come lo vorrai. Ho una vita mia, un lavoro e degli impegni. Non sarò la tua bambola.
Eppure, adesso, mi sento proprio come una bambola.
Come un topolino indifeso che si avvicina al serpente, ignaro della morte lenta e dolorosa che ha in serbo per lui.

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