Cenare nell’ufficio di papà è da sempre un’abitudine.
Quando abbiamo iniziato a farlo, dopo il divorzio, non mi piaceva affatto.
Mi faceva rendere conto di non avere una vera e propria casa.
Certo, il Saudade’s è la mia casa, ed io la amo, ma è una casa diversa.
Non ho mai avuto un salotto in cui guardare la tv dal divano, un camino, un garage. Non ho mai potuto sedere sul portico, magari a fumare di nascosto o ad aspettare qualcuno. Mai avuto un cortile con un canestro, o un giardino in cui piantare dei fiori. Quando c’era la mamma mangiavamo sui tavoli da poker o sul bancone del bar, quando papà era impegnato invece mangiavamo la pizza sul loro lettone. Solo io e la mamma. Papà era spesso impegnato, per questo la mamma era sempre infelice quando mangiavamo sul lettone, e se ne stava in silenzio mentre io le raccontavo un sacco di storie inventate per migliorarle l’umore.
Le raccontavo dei miei compagni di classe, delle maestre, e dei biscotti che gli altri bambini mi regalavano durante l’intervallo. Non c’era niente di vero, però, perché nessuno si sedeva mai accanto a me, nessuno mi parlava o mi regalava dei biscotti.
Una volta io ci avevo provato, avevo portato a scuola un grosso pacco di biscotti che avevo infilato nel carrello di nascosto, mentre la mamma faceva la spesa. Durante l’intervallo li avevo distribuiti, ad uno ad uno a tutti i miei compagni, e avevo sorriso ogni volta. Jackson era stato il primo a prenderne un morso, mentre il resto della classe lo guardava. E io avevo sorriso di più, perché sapevo quanto fossero buoni quei biscotti, ne avevo assaggiato uno prima di distribuirli.
Gli piacerà da matti, mi ero detta. Ma dopo averlo morso Jackson lo aveva sputato per terra, tirando fuori la lingua con un’espressione disgustata.
<Questi biscotti fanno schifo, proprio come te, bambina stramba.>
Tutta la classe era esplosa in una risata, e poi avevano tutti iniziato a gettare per terra i biscotti.
Quel momento ha spento tutta la mia spontaneità, e dopo quel giorno mi promisi che non sarei mai più stata gentile con nessuno. Finché non sono arrivati Betty e Daniel, ovviamente. Con loro è stato diverso, il biscotto mi è stato offerto, ed io l’ho accettato senza pentirmene.
<A che pensi?>
Io e papà stiamo cenando in silenzio da mezz’ora, lui se ne sta con la testa china su alcuni fogli e prende un boccone dal suo piatto ogni tanto.
Io invece sto seduta sulla poltrona di fronte alla sua scrivania, con le gambe incrociate e un hamburger in mano.
La mia testa è altrove, però, e le parole del serpente di ieri sera mi rimbombano in testa.
<A niente.>
Gli rispondo, prendendo un morso dal mio panino.
Finalmente alza lo sguardo dai fogli e lo punta su di me.
<Non è da te essere così silenziosa.>
<Già.>
La verità è che ci sono davvero troppe cose che mi frullano per la mente, e la quantità di domande che non hanno ancora trovato una risposta è diventata troppa.
<È per via di quell’accordo con Logan? Sai che io non ti ho mai chiesto di fare nulla del genere, vero?>
<Non lo sto facendo solo per te.>
Le sue labbra si piegano in un sorriso, e i suoi occhi si addolciscono, come se si fosse appena reso conto che la sua bambina è cresciuta di colpo.
<Lo fai per questo posto, lo so.>
<Già.>
Prende anche lui un morso dal suo hamburger ancora quasi intatto, mentre io mi infilo in bocca l’ultimo pezzo del mio.
<Dicevo sul serio, l’ultima volta che ne abbiamo parlato. Non farti male.>
Mi sistemo sulla poltrona, mentre decido che non ho più voglia di restarmene dietro le quinte.
<Perché? Perché hai paura che io possa farmi male? In che modo tutto questo potrebbe danneggiarmi?>
Tira un lungo respiro, poi allontana il piatto da sotto il suo naso e si appoggia alla sedia con le spalle.
<Logan Harris non è uno qualunque, Mandy. Stargli accanto può essere...complicato.>
<In che modo?>
<Mandy...>
<In che modo, papà? Dimmelo. Dimmi perché hai così paura di lui.>
<Io non ho paura di lui.>
Le sue labbra si riducono ad una piccola linea, mentre io lo guardo con gli occhi sbarrati, in attesa di risposte. Per troppo tempo mi sono chiesta quale sia il legame tra loro, o perché mio padre gli deve dei soldi.
<Stargli accanto è...pericoloso.>
<Perché?>
<Non puoi sapere tutto, Mandy.>
Mi alzo in piedi di scatto, e lui sbarra gli occhi.
<Forse non tutto, ma non sapere proprio niente mi sembra esagerato.>
Mi avvicino alla scrivania e poggio i palmi sul legno.
<Dimmi almeno come lo conosci, dimmi che ruolo ha nella tua vita, dimmi perché gli devi dei soldi.>
Distoglie lo sguardo da me, schioccando la lingua.
<Papà.>
Lo richiamo, alzando appena la voce.
<Perché gli devi dei soldi?>
Lui sospira, portandosi il pugno chiuso sotto al mento.
<Gli ho chiesto una mano, qualche tempo fa, un prestito.>
<Perché?>
<Perché dopo il divorzio mi sentivo perso.>
Mi si forma un nodo alla gola, e mi sento come se mi avessero appena schiaffeggiata.
Io e papà non parliamo mai del divorzio, né della mamma, e la verità che mi ha appena rivelato è dolorosa.
<Ho iniziato a giocare qualche partita, giusto per allontanare i pensieri, ma ho perso troppi soldi. Avrei dovuto chiudere il casinò, se lui non me li avesse prestati.>
<Quindi siete amici?>
<No.>
Continua a fissare il pavimento sotto la sua sedia, senza degnarmi di uno sguardo.
<Allora perché li hai chiesti proprio a lui, quei soldi?>
A questa domanda segue un lungo silenzio, ed io inizio a sentirmi le gambe molli.
<Perché anche lui ha preso qualcosa di mio, tanto tempo fa.>
A quel punto le gambe quasi mi cedono, così con qualche passo all’indietro torno a sedermi. Cosa può mai avergli portato via, Logan? Papà ha sempre avuto solo me e il Saudade’s.
Forse, rifletto, conosco mio padre meno di quanto ho sempre pensato.
<In ogni caso non devi preoccuparti per me, l’accordo si concluderà presto, e poi non sarai più in debito con lui.>
<Non me ne importa niente del debito, se per ripagarlo devi mettere in pericolo la tua vita. Può anche prendersi le mie cazzo di mutande, se deve, ma voglio saperti al sicuro.>
Arriccio le labbra in un piccolo sorriso, perché non capita tutti i giorni di sentirgli dire le parolacce.
<Non sono in pericolo, non è mica un serial killer.>
Almeno lo spero.
<In ogni caso so badare a me stessa, non devi preoccuparti.>
<Devo, invece, così come avrei dovuto farlo quattro anni fa.>
Il mio cuore perde un battito, e dopo quelle parole il mio respiro si fa irregolare.
<Tu...>
Balbetto, mentre mi alzo su gambe malferme.
<Tu non hai nessuna colpa, per quello.>
<Ho tutte le colpe, per quello.>
Finalmente mi guarda, ed io quasi mi sento tremare, sotto il suo sguardo colmo di rammarico.
<Non mi perdonerò mai per quello che ti è successo, mi maledico ogni giorno per non essere riuscito a proteggerti, per non essere stato un buon padre.>
Inspiro bruscamente, mentre cerco di tirar fuori le parole giuste per tranquillizzarlo.
Lui non ha nessuna colpa.
<Tu non...tu non devi...>
<Maledizione, Mandy!>
Si alza di colpo dalla sedia, facendola ricadere all’indietro.
<Quel ragazzo non è una buona compagnia, ed io mi odio perché sto permettendo tutto questo.>
<È necessario.>
Dico, tremando.
<Si, lo è. Ma se pensi che me ne starò a guardare anche stavolta, mentre tu cadi accidentalmente su qualcosa di appuntito, ti sbagli di grosso.>
Improvvisamente una strana consapevolezza si fa spazio dentro di me, e il mio cuore inizia a battere veloce. Il respiro viene a mancarmi, la vista mi si appanna e le mie gambe si fanno deboli. Così deboli che mi sembra di poter cadere da un momento all’altro.
Senza dire una parola, abbasso lo sguardo sui miei piedi e li guardo mentre si muovono ed escono dall’ufficio di papà.
Chiudo la porta alle mie spalle, e cerco una boccata d’aria che però non arriva.
I miei occhi si bagnano e la gola mi si chiude.
Inizio a correre. Corro, corro, corro. Tra i corridoi della mia casa, mentre i miei passi risuonano silenziosi sulla moquette. Corro e boccheggio, come un pesce che è stato strappato via dall’acqua.
Raggiungo le grandi porte dalle maniglie dorate, mentre gli addetti alla reception mi guardano con le sopracciglia aggrottate.
Esco all’aria aperta, apro la bocca e respiro affannosamente, poggiandomi i palmi delle mani sulle ginocchia. I capelli mi ricadono sulle guance, e le mie lacrime urlano, implorandomi di lasciarle uscire.
Lui sa, lo ha sempre saputo.
Ha sempre saputo di quella notte, sa la verità e per tutto questo tempo ha finto di non sapere.
È rimasto a guardare in silenzio mentre raccontavo la stessa identica versione, ogni giorno, per quattro anni.
Ha sempre saputo del mostro, ha sempre saputo di Ethan, e non ha mai fatto niente per aiutarmi a dimenticare. Si è solo imposto di non pensarci, perché ci illudiamo che aggirandolo un problema non esiste.
Ma esiste.
Quello che mi è successo esiste, quella notte esiste.
Non so come mi faccia sentire tutto questo, non so se lo odio. Non so se essere arrabbiata con lui per aver finto di non sapere, o essergliene grata perché mi ha permesso di vivere in una bugia che è migliore della verità.
Alzo il viso verso il cielo, osservando la candida luna che ci splende sopra.
Il cuore batte ancora troppo in fretta, ma adesso respiro di nuovo.
Abbasso lo sguardo sul marciapiede di fronte a me, e per un attimo fugace, vedo un’ombra nel buio.
Il mostro che riempie tutti i miei incubi, quello che ha la barba pungente e puzza d’alcol.
Adesso non lo vedo più solo nel sonno, ma anche da sveglia. La sua ombra mi perseguita, e sta lì a ricordarmi che quello che successe quella notte non verrà mai dimenticato.
La pelle ha memoria, ma la mia ricorda troppo bene. Su di me i ricordi sono stati incisi con la forza, e non se ne andranno mai.
Ci sono cose che non capisco del mondo, o delle persone.
Per esempio, non capisco perché la gente si sente in grado di riconoscere il tuo dolore solo guardandoti.
Perché credono sia possibile intuire il tuo stato d’animo con un solo sguardo?
Le persone ti giudicano ogni giorno, ogni giorno è come se tu fossi sotto esame.
Le parole del serpente mi hanno marchiata, ed io so che ha ragione.
So che non ha sbagliato dicendo che mento ogni giorno, che fingo i sorrisi e che nascondo i sospiri.
Quello che lui non sa, però, è perché lo faccio.
Non sa perché mi sono messa un mantello addosso, un mantello che mi veste di felicità, e che cela la mia paura sotto il nero del suo tessuto.
Sono stata costretta. Dal mondo, dalle persone.
Non penso che provare dolore ti renda diversa, in difetto, sbagliata.
Tutt’altro.
Però la gente ha uno strano modo di trattare il dolore degli altri, e spesso mi sono chiesta cosa gli dia certi diritti.
Siamo tutti schiavi della nostra mente, è lei a custodire le nostre paure, i nostri ricordi, il nostro dolore. E tutti soffriamo per qualcosa, chi di più e chi di meno.
Semmai ti capiterà di trovare qualcuno privo di dolore, privo di ricordi sofferenti, sappi che prima o poi arriverà anche da lui.
Perché il dolore arriva, sempre, sotto una forma o un’altra. Prima o poi tutti ci ritroviamo dentro una spirale da cui non sappiamo uscire, prima o poi tutti abbiamo bisogno d’aiuto.
L’aiuto, appunto, è un’altra delle cose che non capisco del mondo.
A volte, quando ti perdi nel buio dei tuoi pensieri, la gente ti guarda e vede solo un guscio vuoto, un vaso senza fiori. Però non lo riempie quel vaso, non annaffia i tuoi fiori, semplicemente ti guarda e fa la caccia all’errore.
È perché ha un caratteraccio.
È perché non sa stare tra la gente.
È perché ha paura di tutto.
Chissà perché, quando entri in quella stanza vuota, anche se è stato il mondo a rivoltarsi contro di te, per la gente sarà sempre colpa tua.
Ed è per questo che io ho indossato il mantello.
Perché la gente non vuole guardarti mentre vai in pezzi, non vuole assistere alla tua distruzione, non vuole esserne testimone.
A volte, le persone preferiscono guardare una recita.
In fondo è più facile mostrarsi felici quando non lo si è, piuttosto che camminare con il cuore esposto sul palmo della mano.
La verità è che se anche tu gli mostrassi il cuore, nessuno lo comprenderebbe.
È per questo che io ho smesso di parlare, perché le parole non sono mai servite.
Le paure fanno chiasso, il dolore porta caos. La rassegnazione, invece, si maschera da quiete.
Perché alla fine sono io l’unica a cadere in trappola, l’unica a finire nella ragnatela cucita dal ragno della paura.
La mia paura è mia, il mio dolore è mio, la disperazione è la mia.
A loro non importa, perciò a che serve parlare?
Ti giudicheranno, lo faranno sempre perché questo è nella natura dell’essere umano.
Se ti vedranno cadere, non verranno a chiederti cosa ti ha fatto inciampare, si limiteranno a guardarti e a ridere di te. Penseranno che sei una sbadata, che non hai visto l’ultimo gradino, perciò alla fine te la sei cercata.
Non è vero che gli occhi non mentono mai, i miei lo fanno da sempre, e sono dei bravi attori.
Nessuno nota il dolore che ci si specchia dentro, nessuno sente il rumore del mio cuore quando si spezza di fronte ad una mancata attenzione.
Una parte di me lo vorrebbe, vorrebbe che qualcuno mi leggesse dentro e vedesse quanto male mi fa.
A volte vorrei urlare, magari per strada davanti ad una folla.
Vorrei dire al mondo che mi fa male, mi fa tanto male. Dirgli che a volte mi sembra di impazzire, o di quanto la testa mi faccia male quando si perde tra i labirinti infiniti.
Io vorrei dirglielo, davvero, raccontargli di come soffoco i sospiri sul cuscino, di come si bagnano le mie guance quando sono da sola, o di quel dolore al petto che appare all’improvviso.
Vorrei dire a tutti di come mi sento vuota, a volte, o di come mi fa paura l’arrivo di un nuovo giorno.
È da tutti sperare che la notte non finisca mai, o è solo la mia mente che vaga su territori ignoti?
Vorrei dire tante cose, al mondo, ma poi non lo faccio.
Se ci provo, la gola mi brucia, e sento qualcosa legarsi allo stomaco.
Poi alla fine non ci riesco a parlare, eppure io avrei tante cose da dire.
Vorrei dirglielo che il dolore dimora nella mia pancia, e che a volte mi inginocchio sul pavimento perché il mio corpo non è più mio. Vorrei spiegargli che le ferite della mente sono sempre più profonde di quelle sulla pelle, per questo impiegano più tempo per rimarginarsi.
È che il mondo è un posto davvero orrendo, e a volte io non voglio più starci.
Però, quando penso a tutte le cose che vorrei dire, poi non dico niente.
Perché io li vedo mentre ridono di me, sento come sussurrano giudizi basati sulle loro idee.
Il dolore è di chi lo vive, non di chi lo guarda, e nessuno può comprendere il tuo.
Perciò mento ogni giorno, perché se dicessi la verità loro comunque non capirebbero.
Ti sei persa, mi hanno ripetuto troppe volte, ed è proprio ciò che è successo.
Mi sono persa ma nessuno è venuto a cercarmi.
Perciò alla fine mi sono adagiata nel mio dolore, ho creato una piccola casetta di legno al suo interno, e ci sono andata a vivere dentro.
Almeno lui mi conosce, sa chi sono davvero, non posso mentire.
Io sono lui, e lui è me.
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Bluff
RomanceLa vita a volte somiglia ad una partita di poker, e Amanda lo sa bene. Per questo motivo ogni giorno mette in pratica gli insegnamenti di Ethan, il suo primo amore. Ethan le ha insegnato tutto sul poker, regole e trucchi, e Amanda custodisce le su...