<Mi sta già mandando fuori di testa.>
Colpisco il sacco che Daniel sta tenendo fermo con tutta la forza che ho, immaginando la faccia di un arrogante serpente al suo posto.
<Questa storia è davvero assurda.>
Daniel sta impegnando tutta la forza che ha per tenere fermo il sacco. Nonostante io sia esile e per niente muscolosa, quando mi arrabbio divento quasi pericolosa.
<Non devi farlo, Mandy.>
<Oh si che deve.>
Betty se ne sta seduta sulla panchina della palestra, lima le sue unghia delicate e laccate di rosa con una piccola limetta che porta sempre con sé nella borsa.
Smetto di tirare pugni al sacco e mi giro verso di lei.
<Sbaglio o avevi promesso che ti saresti allenata sul serio stavolta?>
Alza lo sguardo infastidita, come se le avessi appena mosso una falsa accusa.
<Infatti mi sono allenata.>
<Una sola serie di squat non può considerarsi un vero e proprio allenamento, B.>
Rimette la limetta nella borsetta e viene verso di noi.
<Però mantiene il mio culo sodo, Mandy.>
Mi da una leggera pacca sul sedere e sorride, io mi tolgo i guantoni aprendo lo strappo con i denti, e mi siedo sulla panchina al suo posto.
<Allora, cos’hai intenzione di indossare per la grande serata con quel maschio di Logan Harris?>
Daniel le rivolge un’occhiataccia e schiocca la lingua, io quasi mi metto a ridere.
<Che ho detto che non va?>
<Niente, figurati.>
Daniel si avvicina alla panchina e prende il suo borsone, recupera un asciugamano e se lo tampona sulla fronte.
<Io vado.>
Si china su di me e mi posa un leggero bacio sulla fronte.
<Fa’ attenzione, d’accordo?>
<Lo farò.>
Betty mi guarda non appena Daniel varca la porta, ed io so esattamente cosa vorrebbe dire, ma le sono grata perché non lo fa mai. È la stessa cosa che nego a me stessa ogni volta che il pensiero sfiora la mia mente. È una cosa che mi spaventa a morte perché so che, semmai dovesse succedere, dopo cambierà tutto.
<Allora>
prende anche lei il suo borsone da sotto la panchina, ed io la imito. Prendo la borraccia che ci tengo dentro e inizio a bere, mentre ci incamminiamo verso l’uscita.
<andiamo a fare shopping per l’occasione? Ho in mente alcuni negozietti che fanno al caso nostro.>
Butto giù l’ultimo sorso della mia bevanda e rido di mezzo lato.
<Calmati, tigre della moda, non comprerò nessun vestito per l’occasione.>
<Oh, d’accordo. Hai già qualcosa da mettere?>
<Si.>
Rispondo fiera, mentre un fuoco appiccato dalla voglia di sfida mi si accende dentro.
<Sarebbe?>
Usciamo finalmente all’aria fresca, ed io inspiro a fondo, sentendomi finalmente pronta a giocare.
<I miei vecchi jeans.>
Betty si ferma di colpo, ma io continuo a camminare.
<Sei seria?>
<Mai stata più seria.>
Qualche ora più tardi, quella sera, mi stavo dando l’ultima occhiata allo specchio.
I miei vecchi jeans, le mie Jordan preferite, una semplicissima tshirt bianca e una spettinata coda di cavallo ai capelli.
Perfetto.
<Non sono la tua bambola, serpente.>
Dico, sorridendo allo specchio.
Non sarei stata un suo giocattolo, la sua ennesima proprietà. Non mi sarei vestita come voleva lui, parlato come voleva lui, corsa ad ogni suo stupido evento ogni volta che voleva.
Non sarei stata il topolino che viene divorato dal serpente.
Sarei stata una fottuta aquila, e scendendo in picchiata avrei divorato il serpente.
O così, oppure non voglio giocare.
Scendo al piano di sotto alle venti e trenta minuti, e trovo già una delle sue auto ad aspettarmi.
<Salve.>
Dico salendo in auto, per salutare l’autista.
<Salve, signorina Martin, mi chiamo Tom.>
Sorrido osservando i tratti rilassati dell’uomo. I suoi capelli sono corti e brizzolati, il suo naso è simile ad una piccola patata e i suoi occhi sono azzurri.
<Piacere di conoscerla, Tom.>
Non risponde, mette in moto l’auto e parte. A metà tragitto mi rendo conto di riconoscere la strada, e quando Tom accosta la macchina davanti alla Harris Enterprises tentenno per un attimo prima di entrare.
Quando esco dall’ascensore mi avvio verso l’ufficio del serpente, non mi importa se è impegnato, non mi importa se non sono autorizzata. Prima metto fine a questa sceneggiata, meglio è.
<Ehi! Aspetta, dove vai? Non puoi entrare così!>
Una voce urla alle mie spalle, e subito dopo un rumore frettoloso di tacchi a spillo rimbomba sul pavimento. Quando mi volto, senza smettere di camminare, vedo la segretaria dai capelli rossi che mi ha accompagnata la prima volta.
L’unica differenza, adesso, è che i suoi capelli non sono più rossi. Sono biondi.
Sorrido e continuo a camminare, mentre lei mi corre dietro come una gallina impazzita, arrivo alla porta dell’ufficio e la apro.
Entro di qualche passo, mi fermo quasi sulla soglia e incrocio le braccia al petto.
Il serpente è seduto su uno dei due divani bianchi, le gambe accavallate e un bicchiere di quello che sembra scotch in una mano.
Il suo sguardo era già fisso sulla porta, come se mi stesse aspettando, e un sorrisetto beffardo si illumina sul suo viso non appena mi vede apparire.
<Mi scusi, signore>
La bionda segretaria arriva correndo alla porta, con una mano sul petto ed il fiatone.
<Lei...io...lei è...>
<Non preoccuparti, Betany, va’ a casa adesso.>
Le parla senza staccare gli occhi da me, e la bionda Betany lo ha notato di sicuro, per questo esce sbattendo la porta.
<Allora?>
Dico, prima che si possa creare troppo silenzio. Io odio il silenzio.
<Dov’è questo evento di beneficenza?>
Il serpente sorride ancora e si alza senza dire una parola. Poggia il bicchiere sulla scrivania, e poi ci gira intorno. Non mi guarda, non parla, sembra quasi come se non respirasse. Io sposto il peso da un piede all’altro, improvvisamente inizio a sentire il peso del nervosismo piombarmi addosso.
Si abbassa appena, dietro la scrivania, e quando si rialza tiene in mano un sacchetto nero lucido.
Alza lo sguardo su di me, ed io muovo il mio dal suo viso al sacchetto, ad intermittenza. Quando inizia a camminare verso di me, lentamente, con i suoi occhi che mi inchiodano al pavimento, inizio a sentire il respiro irregolare.
Arriva davanti a me, getta il sacchetto ai miei piedi, e un vestito corto e nero ne esce fuori. Guardo prima l’oggetto sul pavimento e poi lui, non parlo, ma il mio sguardo probabilmente esprime tutta la mia confusione ed il mio fastidio.
<Prima mettiti quello.>
Parla in tono serio, come se io fossi una schiava e lui il mio ricco padrone.
Sposto un’altra volta il peso da un piede all’altro e stringo più forte le braccia al petto.
<Sarebbe un ordine?>
Lui infila una mano nella tasca dei pantaloni e fa sparire quel fastidioso sorrisetto.
<Ti avevo detto di non indossare quei vecchi jeans.>
<E io ti avevo detto che non sono la tua bambola.>
Con due semplici passi annulla la distanza che prima ci separava, ritrovandosi di fronte a me, con solo il sacchetto sul pavimento fra di noi.
<Indossa quel vestito, Amanda.>
Scavalco il sacchetto e mi pianto di fronte a lui. È alto, gli arrivo più o meno al petto, ma questo non mi intimorisce. Alzo appena i piedi sulle punte e mi avvicino il più possibile al suo viso.
<Io non indosso vestiti corti, serpente. E non prendo ordini da te.>
Segue un silenzio tombale, disturbato solo dai nostri respiri, stranamente pesanti. Lui estrae la mano dalla tasca dei pantaloni, e per un attimo penso che voglia toccarmi. Il suo sguardo si sposta dai miei occhi alle mie labbra, e d’istinto io le inumidisco con la lingua.
Abbasso lo sguardo sulla sua mano, come se volessi assistere al momento in cui la sua pelle entra in contatto con la mia.
Ma non succede, la chiude a pugno e stringe così tanto da sbiancare le nocche.
Si sposta veloce e si allontana da me, incamminandosi verso la porta.
<Andiamo, allora.>
Esce dalla stanza senza aggiungere altro, e io mi ritrovo a tirare un lungo respiro come se lo avessi trattenuto per tutto questo tempo. Poi lo seguo ed esco.
Gli cammino dietro come un cagnolino, e quando arriviamo in ascensore non trovo il coraggio per dire niente. Mi sento improvvisamente privata di tutta la mia arroganza, e non so spiegarmi il perché.
<Ciao, Tom.>
Saluta l’autista come se fosse un amico e non un suo dipendente, strano da parte di un ricco capo snob. Sale in auto e chiude la portiera, senza degnarmi di uno sguardo.
Che gentleman, penso tra me e me.
Tom si affretta ad aprirmi la portiera, ed io lo ringrazio con un sorriso prima di salire affianco al serpente.
Per tutto il viaggio non mi rivolge la parola, ed io mi adatto, ammiro la strada che scorre veloce fuori dal finestrino e prego che finisca tutto presto.
<Okay, asso, adesso ascoltami bene.>
Dice, una volta arrivati.
Dio, ma perché mi chiama così?
Mi volto nella sua direzione e alzo le sopracciglia per fargli notare il mio disinteresse.
<Numero uno, non mettermi in imbarazzo.>
Mi lascio sfuggire una risata, ma lui non si scompone.
<Numero due, ricorda che stiamo fingendo di essere una coppia, perciò sii convincente.>
Allargo la mia risata e mi sporgo leggermente verso di lui.
<Non ti bacerò, se è questo che mi stai chiedendo.>
Anche lui si sporge verso di me, e questa volta sorride appena.
<Non è ciò che ho chiesto.>
Quasi vorrei fargli la linguaccia, ma mi trattengo.
La nostra è come una partita a poker, solo che entrambi siamo bravi a non far trapelare le emozioni.
Si allontana da me e poggia la mano sulla maniglia dell’auto, la apre e mette un piede fuori, poi si volta di nuovo a guardarmi.
<Numero tre, fai la brava.>
Sto per rispondergli a tono, ma non me ne da il tempo. Esce dall’auto e richiude la portiera, mentre Tom apre la mia.
Bene, Mandy, giochiamo
penso, mentre scendo dall’auto e lo seguo all’interno del palazzo.
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Bluff
RomanceLa vita a volte somiglia ad una partita di poker, e Amanda lo sa bene. Per questo motivo ogni giorno mette in pratica gli insegnamenti di Ethan, il suo primo amore. Ethan le ha insegnato tutto sul poker, regole e trucchi, e Amanda custodisce le su...