Con gli angeli ci si annoia

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Colin mi aiuta a rimettermi in piedi, ed io sento le gambe incredibilmente deboli. Le sento pesanti come montagne, così tanto che temo che non si muoveranno quando gli ordinerò di farlo.
Anche se adesso ci ritroviamo entrambi in piedi, Colin non si scosta dal mio fianco, lasciando così che io continui a reggermi al suo braccio.
Entrambi guardiamo verso l’ombra scura che si mimetizza tra il buio e la luce del corridoio, le mani in tasca e un sorrisetto di sfida sulle labbra.
Nessuno dice niente però, anche se i lineamenti di Colin si induriscono mentre chiude a pugno le mani.
Logan non si sposta di una virgola, continua a guardarmi e a sorridere come se mi avesse appena colta in fallo.
Tutto questo è davvero assurdo, così tanto che percepisco un calore quasi bollente invadermi tutto il corpo.
Sono passate settimane dall’ultima volta che l’ho visto, settimane dal suo ufficio, e dai sorrisi incerti che ci siamo donati l’un l’altra. Settimane da una pistola, uno sparo, e le mie lacrime. Da quella prima e ultima volta in cui mi ha stretto forte a sé, facendomi sentire in un bel posto, un posto che cerco da tutta la vita.
Ho trascorso queste settimane in attesa, a sopprimere la speranza.
Le ho trascorse aspettando il giorno in cui finalmente avrei rivisto quel sorriso di sfida, il momento esatto in cui l’avrei ricambiato lasciandomi invadere da una dolce scossa elettrica.
E adesso lui è qui.
È qui, di fronte a me, nascosto nell’ombra, che poi è il colore che più gli si addice. La luce non fa per lui, non si mischia con il suo essere, non gli fa brillare gli occhi.
Nell’ombra sembra a suo agio, e sembra bellissimo, come un peccato capitale.
Deglutisco a fatica, sentendomi aghi in gola. Alzo il mento, e lascio scivolare il braccio in quello di Colin.
Con spalle dritte, il croupier a braccetto, inizio a camminare verso il serpente.
Quando lo raggiungo, la testa inizia a pulsarmi e dolermi. Colin respira rumorosamente al mio fianco, come se percepisse un pericolo o una situazione di disagio.
Mi fermo davanti a Logan con un sorriso da strega, anche se il mio corpo è in preda a dolori pulsanti alle ossa.
<Ti sei perso?>
Gli chiedo, e la mia voce rimbomba nell’eco del corridoio vuoto.
Lui non perde l’occasione per accentuare il suo sorriso beffardo, ma non si scompone neppure un po', resta immobile a fissarmi negli occhi con le mani in tasca.
<Io non perdo mai niente, neppure la strada.>
Il suo sguardo saltella dai miei occhi alla mia bocca, e poi da un’occhiata a tutto il mio viso, come se volesse assicurarsi che sia tutto come lo ricordava.
<Ah, si?>
Gli rivolgo uno sguardo da gatta, e il mio corpo viene invaso da brividi di freddo.
Colin sposta il peso da una gamba all’altra, restando nel mezzo ad osservare prima me e poi Logan.
Quest’ultimo, per tutta risposta, distoglie lo sguardo dal mio viso per dare un’occhiata di sbieco al croupier.
<Ti dispiace?>
Dice in tono secco, la rappresentazione dell’autorevolezza.
<Fare che?>
Gli risponde l’altro, come se avesse deciso di interpretare la parte del ragazzino impertinente.
<Levarti di mezzo.>
Colin lo guarda come uno che non ha intenzione di arrendersi, mentre Logan sembra assolutamente intenzionato ad avere l’ultima parola.
Maschi. Maschi alfa patetici.
<Torna pure di sopra, Colin.>
Gli appoggio una mano sul petto per tranquillizzarlo, e lascio che mi guardi negli occhi per assicurarsi che sia tutto okay.
Alla fine, senza aggiungere altro, se ne va rivolgendo a Logan l’ultima occhiata.
Una volta soli, rivolge nuovamente la sua attenzione su di me, mentre io incrocio le braccia al petto.
<Che fine hai fatto?>
Gli chiedo, smettendo ormai di sorridere, e lui fa lo stesso.
<Sono stato impegnato.>
<A fare cosa?>
<Cose.>
Sbuffo una risata e distolgo lo sguardo dai suoi occhi.
<E tu che hai fatto? Sembri stanca.>
<Sto benissimo.>
Mentre gli rispondo un altro brivido di freddo mi percorre la schiena, e le palpebre iniziano a farsi pesanti. Forse avrei dovuto dormire un paio d’ore in più stamattina, oppure è tutta colpa di ciò che è accaduto qualche minuto fa sul pavimento. Fatto sta che d’improvviso mi sento incredibilmente stanca, proprio come ha appena detto lui.
Stronzo.
<Sembri uno zombie.>
Rivolgo di nuovo il mio sguardo nella sua direzione, alzando un sopracciglio. In risposta lui arriccia il naso per nascondere un mezzo sorriso.
<Gran bel complimento, grazie.>
<Figurati, sono il re dei complimenti.>
Scuoto la testa e abbozzo un sorriso, poi cerco di muovere le gambe verso l’uscita.
Ma le sento deboli, stanche, incapaci di reggere il mio peso. Le ossa mi fanno male come se fossero in procinto di rompersi ad una ad una.
Logan è subito dietro di me, con una mano sul fondo della mia schiena.
<Sul serio, stai bene?>
D’istinto mi allontano dal suo corpo con uno scatto, e inizio a camminare.
Più che camminare il mio è un trascinare, le ginocchia quasi cedono mentre tento di trascinare il mio corpo sulle scale.
Prima ancora di rendermene conto, i miei piedi si allontanano dal pavimento, e il mio corpo si ritrova sospeso in aria.
Logan mi ha appena presa in braccio.
<Che diavolo fai?>
Quasi urlo e scalcio mentre lui inizia a camminare tenendomi in aria come una principessa schizzinosa. Ma per evitare di cadere, schiacciandomi il naso sulle mattonelle, mi ritrovo costretta a girargli un braccio dietro al collo.
<Ti aiuto.>
Continua a camminare senza neppure guardare di  fronte a sé, guarda solo me e sorride come un demente.
<Cammino anche da sola.>
<Non sembravi molto in grado, un attimo fa.>
<Logan.>
Il suo nome sulle mie labbra sembra farlo sorridere ancora di più.
<Si, asso?>
<Fammi scendere.>
Smette di guardarmi e finalmente guarda di fronte a noi, ed io lo imito accorgendomi di essere arrivati al piano superiore.
I clienti e dipendenti nella hall del Saudade’s ci fissano, alcuni sorridendo, altri aggrottando le sopracciglia.
<Ti metterò giù solo quando sarai nel tuo letto.>
Inizio di nuovo a calciare l’aria.
<Che cosa? Io devo lavorare, non farmi un sonnellino.>
<Non puoi lavorare in queste condizioni.>
<Ma quali condizioni? Tu sei impazzito, mettimi giù all’istante.>
Senza preoccuparsi di rispondermi si avvicina alla hall mentre io mi dimeno come una pazza scatenata. Quando raggiunge il bancone della reception, Dotty ci guarda evitando di scoppiare a ridere.
<Salve, signor Harris.>
Lo saluta lei, con un sorriso da gatta morta.
<Ciao, Dotty.>
Bene, si ricorda addirittura il suo nome.
Evito di dimenarmi ancora, mentre lui stringe appena la pelle della mia coscia sotto la sua mano sinistra.
<Ti dispiacerebbe far portare delle aspirine nella camera di Amanda, per favore?>
Sfodera uno di quei suoi sorrisi accattivanti, ed io mi trattengo dall’alzare gli occhi al cielo mentre le guance della receptionist si macchiano di rosso.
<Subito, signore.>
<Sei un angelo.>
La saluta così, ed io vorrei vomitare.
<Sei un angelo.>
Mi prendo gioco di lui, imitando il suo tono di voce.
<Tu no.>
Dice, infilandosi in uno degli ascensori e premendo il pulsante.
<Tu sei un diavoletto.>
Le porte si chiudono e i nostri respiri si fanno più rumorosi nel silenzio della cabina.
<Perché non te ne resti qui sotto con Dotty, allora?>
<Perché con gli angeli ci si annoia, con te invece mai.>
Mi fa l’occhiolino prima che le porte si riaprano, e quando inizia a camminare verso la mia camera mi arrendo e smetto di dimenarmi o di parlare.
Senza neppure darmi il tempo di collegare, Logan sfila la chiave della camera dalla tasca posteriore dei miei jeans, e apre la porta mentre io cerco di capire come faceva a sapere che si trovava proprio lì.
Richiude la porta con un calcio, e non accende neppure le luci della stanza.
Si muove alla cieca, raggiungendo il letto come se conoscesse a memoria il percorso.
Non appena mi adagia con delicatezza sul materasso, tutti i miei muscoli si rilassano e lo ringraziano in silenzio.
Alza la coperta dai piedi del letto e me la fa scivolare sui fianchi, facendo attenzione a non toccarmi.
Dopo un minuto bussano alla porta, e Logan ci si dirige muovendosi ancora nel buio. Quando la sento richiudere, prendo a fissare il buio davanti a me in attesa di vederlo spuntare, ma non vedo proprio un accidenti. Sento il materasso piegarsi al mio fianco, e l’attimo dopo la luce sul comodino si accende, illuminando il suo corpo seduto accanto a me.
<Prendi questa.>
Mi dice, porgendomi una pastiglia e un bicchiere d’acqua.
<Perché dovrei?>
Osservo la piccola pillola che tiene in mano, cercando di capire se vuole drogarmi per poi uccidermi.
<Hai la febbre.>
Stronzate.
<Non è vero.>
<Si, invece.>
<Pensi di saperlo meglio di me? Il corpo è il mio.>
Mentre cerco di difendermi analizzo silenziosamente i sintomi, accorgendomi del calore che mi ricopre le guance e la fronte.
<Hai le guance tutte rosse, gli occhi lucidi e stanchi, e sento il calore della tua pelle anche da sopra i vestiti. Hai la febbre.>
Quasi mi metto ad urlare per il fastidio che mi provoca il dover ammettere che ha ragione, ma non dico niente, prendo la pastiglia e la mando giù svuotando il bicchiere.
Quando glielo restituisco lo poggia sul comodino dal suo lato, e poi si sistema sul materasso, guardando il soffitto con un braccio dietro la testa.
Io mi lascio scivolare sul letto, sistemandomi sui cuscini e tirandomi le coperte fino al mento, ringraziandolo ancora in silenzio per avermele sistemate sul corpo invaso dai brividi.
<Era da un po' che non mi capitava.>
Dico, parlando al soffitto.
<Che cosa? Avere la febbre?>
Annuisco.
<Succede anche ai migliori.>
Mi ritrovo a sorridere nel mio lato del letto.
<Non serve che resti.>
Cerco le parole giuste per salutarlo e ringraziarlo per avermi accompagnata a letto, ma all’idea che se ne vada il mio cuore protesta.
<Resterò.>
Dice soltanto, usando un tono che non lascia spazio all’incertezza. Non è una domanda, o una richiesta, il contrario non è ammesso.
<Lo sai>
Inizio, cercando di ignorare il calore che mi si espande nel petto all’idea che resterà qui con me per un po'.
<quando ero bambina, e mi trovavo in Spagna con mia madre, lei mi preparava sempre l’orxata de xufa quando stavo male.>
Lui si sposta leggermente nel suo lato del letto, sistemando il braccio sotto la testa, e quando mi volto a guardarlo lo ritrovo a sorridere.
<Sono parole che hai appena inventato, o è qualcosa che esiste davvero?>
<Esiste davvero.>
Rispondo fiera, sorridendo a mia volta, e a questo punto anche lui si gira a guardarmi.
<È una bevanda tipica di Valencia, preparata con acqua, zucchero e un latte speciale ricavato da una pianta. Mamma non ha mai voluto rivelarmi il nome della pianta, diceva che sarebbe rimasto un suo segreto, così ogni volta che ne avrò voglia sarò costretta a chiamarla.>
Sorrido al ricordo della mia mamma, della mia amata Spagna e della me bambina.
Logan smette di sorridere e torna a guardare il soffitto, come se un velo di malinconia fosse calato anche su di lui.
<Cosa faceva la tua quando stavi male?>
Gli chiedo, studiando il suo profilo.
<Non me lo ricordo.>
Risponde secco, mentre il suo respiro accelera appena.
A questo punto mi rendo conto di quanto poco ne so di lui, di quanto mi sia sconosciuto il suo passato, le sue origini.
<Com’è tua madre?>
Parlo senza concedermi il tempo di ponderare la cosa, e il suo sguardo si rabbuia.
<Perché lo vuoi sapere?>
Guarda ancora il soffitto, e il mio cuore inizia a battere un po' più veloce.
<Per conoscerti meglio, credo.>
<Sapere che tipo è mia madre non ti rivelerà niente sulla mia persona.>
<Voglio solo...>
Mi sistemo sul cuscino, appoggiando la testa sul gomito, mentre i capelli rossi ricadono sulle lenzuola.
<voglio solo saperne di più su di te, voglio...>
Studio le sue ciglia lunghe, e i suoi occhi grigi persi ad osservare il vuoto.
<capirti.>
Dico alla fine, cercando di calmare il mio cuore.
A questo punto si gira a guardarmi, e il suo sguardo si addolcisce quando trova il mio.
<Anche se mi strappassi il cuore dal petto e lo riponessi nelle tue mani affinché tu possa osservarlo meglio, anche in quel caso non capiresti niente di me.>
<Perché avrebbe paura di lasciarsi osservare così da vicino.>
Non una domanda, ma un’affermazione certa.
Perché lui, come il suo cuore, ha solo paura di essere guardato e capito a fondo.
Forse perché finora nessuno ci è mai riuscito, nessuno ha mai guardato oltre l’orizzonte, oltre i suoi muri e il suo ghiaccio. Oltre la sua paura.
<Ci sono soltanto caos e urla lì dentro, niente di colorato, niente di bello. Non cercare di capirlo, non ne vale la pena.>
Si alza dal letto senza degnarmi di uno sguardo, e di scatto anch’io faccio per alzarmi, ritrovandomi seduta.
<E se io invece volessi farlo?>
Forse è la febbre a parlare, forse dovrei mettermi a dormire e chiudere la bocca.
<Se io volessi capirlo? Vederlo e capirlo, vederlo per davvero.>
Capire te
<Saresti una sciocca, allora.>

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