Opposti e complementari

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Il dolore è nell’aria,
lo respiro ogni volta che il pensiero cade su di te,
avrei voluto che le tue braccia
diventassero sponde forti
dove appoggiarmi quando il mio cammino
si fosse fatto lento.
Avrei voluto fidarmi del tuo domani
lasciandomi cullare dai ricordi…
Eri il fiore voluto, cercato ora così lontano…
sfiorito da false illusioni e danze di fantasmi,
maschere bugiarde pronte a ingannare
il tuo tempo e la tua mente.
E io resto qui...con una lama nel cuore
a guardare il tuo salto nel buio.
Le mie mani non riescono a raggiungerti
troppe luci che ti abbagliano
troppo il frastuono che hai intorno…
non puoi sentire le mie lacrime
perché le lacrime non fanno rumore.

Alda Merini


Ci sono diversi modi per morire.
Sono moltissimi, soliti e insoliti, conosciuti e sconosciuti.
Si può morire ogni giorno, mentre attraversi una strada, ma anche restando seduto sul tuo divano.
La morte è sempre in agguato.
Io ci credo al destino, sono convinta che la nostra storia sia già scritta, da qualche parte su un vecchio libro sbiadito.
Nulla accade per caso.
Per molto tempo, durante la mia vita, ho immaginato il modo in cui la morte sarebbe arrivata a cercarmi.
A volte l’ho desiderata, altre l’ho temuta.
Sono sempre stata convinta, però, che il passato si sarebbe riversato sul futuro, e che proprio a causa di quel passato sarei morta.
Non mi sono sbagliata.
Una pistola, credevo.
Un coltello, tremavo al solo pensiero.
Un colpo mortale alla testa, veloce e forse indolore, poteva andare bene.
Mi sono sempre sbizzarrita, immaginando come la morte si sarebbe divertita con me.
Quello che non ho mai messo in conto, però, è un opzione assai rara è bizzarra.
Vivere, con la mente e con il corpo, ma con il cuore morto.
Chissà se è mai successo, oppure sono tipo il paziente zero.
In sostanza…
è così che sono morta.
I dottori che si sono presi cura di me per ventotto giorni, dicono che il mio cuore batte.
Conta tutti i battiti, pompa il sangue, ed è in perfetta salute.
Dicono che è stato un miracolo, che la pallottola l’ha sfiorato di poco, pochissimo.
Me l’hanno anche fatto sentire battere, attaccandomi dei fili al petto.
Io l’ho sentito quel rumore simile ad un battito, ma non è reale.
Loro credono che sia sopravvissuta, che il miracolo mi ha baciato la fronte e mi ha dato un’altra possibilità, ed io ho lottato per questa possibilità, per i miei sogni.
Però loro non lo sanno…
non lo sanno che il cuore non mi batte più.
Non lo sanno che si è frantumato in minuscoli pezzi sul pavimento di quella chiesa. Pezzi così piccoli che anche se volessi cercarli non riuscirei a vederli.
È polvere, ormai.
Non ne resta che il ricordo.
Se loro avessero visto come si stava dall’altra parte, forse non sarebbero così felici del mio ritorno.
Lì c’era la pace, anche se a volte i rumori mi assordavano.
Sentire mamma che piangeva mi faceva male, sentire Betty e papà.
Era un dolore strano, perché faceva male senza sentirlo davvero.
C’era un dolore che sentivo fortissimo, però.
Un dolore che indossa meravigliosi occhi grigi come le nubi.
Un dolore che mi sussurrava all’orecchio, mi rubava le labbra e mi accarezzava le dita.
Era il peggiore dei dolori.
Lì, persa negli abissi della mia mente, quando mamma non piangeva io sentivo solo quello.
Solo quell’unico, e logorante dolore.
Un dolore fatto di bugie.
Adesso, quando chiudo gli occhi, riesco a vedere tutti quei dettagli che la mia mente ha tentato di occultare per tutto questo tempo.
Ora, quando chiudo gli occhi, vedo sempre lo stesso grigio e lo stesso volto.
Non è mai cambiato niente, ma sono stata cieca.
Ho guardato un riflesso senza essere in grado di riconoscerlo.
<È bellissima.>
Una voce parla da davanti la porta della mia camera d’ospedale, ed io la conosco bene.
C’era anche lei nei miei sogni, però era diversa, lontana, persa.
Mi ha terrorizzata.
Smetto di osservare allo specchio il piccolo foro ancora in via di guarigione sul petto, e salto giù dal letto.
Mi getto tra le braccia di Maverick, ed anche se siamo entrambi doloranti e ammaccati, così tanto che abbracciarci ci fa scappare un lamento, ci stringiamo forte.
Quando mi ritraggo, caccio via le lacrime perché sono stanca di piangere, perfino le lacrime di gioia non voglio più vederle sul mio viso.
Eppure sono felice, così tanto da voler piangere.
Per lui, per il mio amico, sono felice.
<Ahi!>
Si lamenta, quando gli do un piccolo colpo sulla spalla.
<Sei uno stronzo.>
Sentenzio, incrociando le braccia al petto.
<Che ho fatto?>
<Non sei venuto con me.>
Gli do le spalle e torno sul letto, mentre lui richiude la porta e si siede su una delle scomode sedie della stanza.
<Non sarebbe cambiato nulla.>
Mi dice, assumendo un’espressione rassegnata.
<O magari sarebbe cambiato tutto.>
Alzo di nuovo la camicia da notte, senza preoccuparmi minimamente di mostrarmi in intimo di fronte a lui. Insomma, è Mav.
Mi posiziono davanti al piccolo specchio che ho sistemato sul letto, e riprendo ad osservare la cicatrice, per la sesta volta in un giorno.
Sono arrivata a tredici, qualche giorno fa.
<Ehi.>
Mi richiama lui, ma io comunque rimango a guardare il mio riflesso, accarezzando cautamente il piccolo segno rotondo.
<Guarda qui.>
Si alza dalla sedia e mi raggiunge, si ferma accanto al letto e alza la t-shirt nera.
Quando mi volto a guardarlo, trovo un dettaglio sul suo addome che mi ruba un brivido.
<Non sarà la stessa fuori.>
Dice, prendendomi una mano e posizionandosela sul fianco.
<Ma è la stessa dentro.>
Accarezzo la sua cicatrice, lunga e sottile, come quella che mi colora la gamba.
Un coltello, ecco cosa lascia un simile segno.
Lo so perché ne ho uno identico, ma anche perché ho visto una lama brillare tra le mani di Colin, quella notte.
<Non avrei dovuto lasciarti lì.>
Mi rabbuio, allontanando la mano da quella ferita che sento anche mia.
<Eravamo tutti dove saremmo dovuti essere.>
<No.>
Butto fuori, prendendo il piccolo specchio e spostandolo sul comodino.
<Lui non doveva essere lì.>
Si zittisce, e mi osserva mentre mi sistemo sul letto, lasciando uno spicchio di spazio vuoto accanto a me.
Parlare non serve, lui ormai comprende anche i miei silenzi.
È per questo che, senza dire niente, si distende al mio fianco lasciando fuori solo le scarpe.
<È difficile per tutti.>
Mi confessa, mentre entrambi guardiamo la parete bianca davanti a noi.
<Lo so.>
Ed è la più onesta delle verità.
È difficile per tutti, anche per chi non c’era.
<Poi passa?>
Chiedo, abbandonando una mano sul materasso in mezzo a noi.
<No.>
La sua mano scivola nella mia, e il bisogno di piangere bussa un’altra volta alla mia porta.
Lo fa da ventotto giorni, compresi quelli in cui ero incosciente.
Bussa e mi implora, supplica anche solo una lacrima.
Ma io ho finito di piangere, non le voglio più quelle lacrime, non voglio che piova.
<A te dove ti fa male?>
Gli chiedo poi, stringendo la sua mano.
<Dappertutto.>
<E questo...>
Inizio, voltandomi verso le finestre, osservando il sole che piano fa spazio alla sua luna.
<Questo poi passa?>
<Forse un po', ma mai del tutto.>
Ed io so che è così.
Lo so perché il dolore lo conosco bene.
Lui non ti lascia mai, non del tutto.
Sta a te decidere se accoglierlo, o provare a cacciarlo.
Ma non lo puoi cacciare, e lo sai bene anche mentre ci provi.
<Tu come lo senti il cuore, adesso?>
La mia domanda lo fa sorridere, anche se sto ancora guardando il tramonto lo so per certo.
<Lo sento...>
Sembra rifletterci, voltandosi anche lui a guardare fuori.
<A metà.>
Stringe di più la mia mano, rubandola dal gelo che le fluttua sempre attorno.
<E tu, come lo senti il cuore?>
<Non lo sento più.>
Cala il silenzio, e per qualche minuto si sente solo il canto degli uccellini fuori dalla finestra.
<Tu lo sapevi?>
Riesco a chiedere dopo un’infinità di tempo trascorso a riflettici.
<Sapevi chi è, chi...chi sono io?>
Non riesco a dirlo.
Ci provo da giorni.
Non riesco a dire quel nome, il suo nome.
Non riesco a capacitarmi, ad accettarlo, a farci i conti.
<Si.>
Mi risponde, e il suo tono sembra chiedere scusa.
Ma io, a lui, non ne faccio una colpa.
Non potrei.
Lui mi ha salvata, o almeno ci ha provato.
<Perché?>
<Amanda...>
<Perché, Mav? Perché ha fatto tutto questo?>
Lui tace, ed io sento un’altra volta la familiare sensazione di tristezza crescermi dentro al petto vuoto.
<Dimmelo, ti prego.>
<Non spetta a me.>
Ha ragione, eppure…
sentirlo da lui sarebbe più facile.
Di fronte a lui mi sentirei meno vulnerabile, meno debole.
<Sta soffrendo.>
Mi confida poi, stringendomi la mano.
<Lo facciamo tutti.>
<Lo so, ma...>
Si alza e si mette seduto, guardandomi. Ma anche così io continuo a guardare fuori, a evitare il suo sguardo, perché mi sento fragile.
<Non lo giustificare.>
<Non voglio farlo.>
Inclina la testa e mi studia il viso, addolcendosi.
<Lui tiene a te.>
E questa volta non posso farci niente.
La pioggia, fitta e ribelle, scende dai miei occhi, stanca di aspettare.
<Guardami.>
Gli dico, voltandomi a guardarlo con il viso in tempesta.
<Mi ha distrutta.>
Lui sorride, mentre io mi chiedo cosa ci sia da sorridere di fronte ad una scena tanto patetica.
<Sei bella lo stesso, piccolo arcobaleno.>
Non ho neanche il tempo di sbattere le ciglia, il mio corpo si muove da solo e si getta su di lui.
Incastro il viso nell’incavo del suo collo, e capisco che un amico, a volte, può salvarti la vita.
Però Maverick me l’ha salvata in due sensi.
Mi ha salvata da Colin.
E adesso mi salva da me stessa.
Perché quello che sento mentre lui mi strige forte, è la quiete che ti da un rifugio in mezzo alla neve, un corso d’acqua tra le fiamme.
È salvezza, certezza, protezione.
È una cosa di cui non sapevo di avere bisogno, eppure l’ho sentita crescere in me non appena è entrato da quella porta.
<Sono temporale.>
Sussurro, stretta a lui.
<No.>
Dice, scostandosi da me e guardandomi in viso.
<Sei arcobaleno.>
Mi sposta una ciocca rossa dietro l’orecchio, e a me scappa un singhiozzo.
<Sei stata l’arcobaleno per tutti noi, Amanda. Ci hai dato una speranza.>
Sorrido, anche se tra i singhiozzi.
Perché sento chiaramente che crede davvero a ciò che dice.
Comprendo che, anche se ti senti il peggiore dei temporali, per qualcuno sarai sempre l’arcobaleno.
Ed io, questo, lo porterò nel cuore per sempre.
Perché a prescindere da tutto, questo, è stato il mio spicchio di arcobaleno.
Non importa quanto tu ti senta rotta, qualcuno sarà sempre in grado di volerti bene anche così.
Gli amici sono un bene essenziale della vita.
Non averli ti distrugge, perderli ti devasta.
Io ho trovato dei nuovi amici, ma la vita ci ha buttati in mezzo alla guerra, e dalla guerra non si esce mai senza vittime.
La guerra ti cambia, e io non sono più la stessa.
<Devo darti una cosa.>
Dice, sciogliendo l’abbraccio e alzandosi dal letto, mentre io mi asciugo le guance con le nocche.
Si fruga nelle tasche fino a tirarne fuori una piccola scatola.
La poggia sul materasso accanto a me, e poi si china a baciarmi la fronte.
<Ciao, piccolo arcobaleno.>
Si avvia verso la porta, e non si concede neppure un ultimo sguardo.
<Ciao, gigante buono.>
Dico, anche se è già andato via.
Prendo la piccola scatola e me la rigiro tra le mani per un po', poi, prendendo coraggio, la apro.
Mi rigiro tra le dita la catenella della collana che custodiva la scatola, e odio la sensazione che sento dentro quando osservo il medaglione.
È a forma di cuore, ma al suo interno è diviso in due metà.
Su una metà c’è un mezzo fiocco di neve circondato da altri più piccoli, sull’altra c’è invece un muro di fiamme. Fiamme alte e rosse, come i miei capelli.
Con un sospiro rumoroso, lo giro e leggo l’incisione sul retro.

Hielo y Fuego
Opuestos y Complementarios

Che, tradotto, significa: Ghiaccio e fuoco, opposti e complementari.



Che, tradotto, significa: Ghiaccio e fuoco, opposti e complementari

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