Vediamo che sai fare

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Quando apro gli occhi, la luce del sole entra accecante dalle ampie vetrate.
Mi siedo sul letto, mentre la lunga t-shirt mi ricade sui fianchi, e la coperta sulle gambe, scoprendo la cicatrice rosa.
Non ci faccio caso e mi stropiccio gli occhi, guardandomi intorno. Mi ci vuole qualche minuto per fare mente locale, e ricordarmi di tutto quello che è successo, e dove mi trovo.
Quando realizzo, osservando l’elegante camera da letto adesso illuminata, inizio a riflettere sul da farsi.
Ieri sera, con tutto il caos accaduto, e con il serpente sempre intorno, non sono riuscita a pensare a niente.
Adesso, a mente lucida, mi rendo conto di aver passato una notte fuori senza avvisare papà, se se n’è accorto saranno guai seri per me.
Inoltre, a quanto ho capito, dovrò passare ancora del tempo rinchiusa nel castello del serpente, perciò devo proprio avvertirlo.
Ma, il vero problema adesso è che non ho il mio cellulare con me.
Il meraviglioso abito che Logan mi ha mandato per quell’evento, e che io ho indossato con un po' troppo entusiasmo, non aveva neppure una tasca nascosta.
Non volevo rovinare l’abito con una borsa,anche perché non ne avevo una adatta, ho sempre preferito la comodità alla qualità, perciò nessuna borsetta elegante nel mio armadio.
A volte mi piace prendere le distanze dall’attaccamento quasi ossessivo che il cellulare crea, perciò non mi faccio problemi a lasciarlo a casa quando non riesco a portarlo con me.
In ogni caso, adesso mi pento della scelta.
Scendo dal letto e apro un’altra volta il grande armadio e i cassetti presenti nella stanza, come se in poche ore potesse essersi riempito di un qualche capo di abbigliamento. Ovviamente, è ancora vuoto.
Perciò, a meno che io non voglia andare in giro con l’abito dalla gonna a balze, mi tocca uscire da qui con solo la t-shirt. Per fortuna è abbastanza lunga e coprente, basterà non fare movimenti bruschi.
Scendo al piano di sotto con l’intento di trovare un telefono di qualsiasi tipo per comunicare a qualcuno che sono viva, e che non sono stata rapita, più o meno.
Quando scendo l’ultimo gradino la casa è ancora immersa nel silenzio più totale, come se fosse disabitata, o come se stessero dormendo ancora tutti. In effetti non ho la minima idea di che ora sia, nella mia camera non c’è neppure una sveglia, ma il sole è già alto e direi che sono almeno le dieci del mattino.
Mi dirigo alla cucina guardandomi intorno furtiva, e quasi tiro un piccolo urlo quando intravedo Tom seduto al bancone, vestito di nero come sempre.
Davanti a lui ha una grossa tazza, riempita di latte e cereali al miele, i miei preferiti. Tom non mi degna di uno sguardo, e continua a mangiare dalla sua tazza, come se la mia presenza fosse del tutto normale in quella casa.
<Buon giorno.>
I suoi occhi marroni si posano su di me, quando mi appoggio al bancone proprio davanti a lui.
<Buon giorno, Amanda.>
Sorrido di mezzo lato e lo guardo per qualche secondo, mentre lui si porta alla bocca un’altra cucchiaiata di cereali.
<Non mi chiami più signorina Martin?>
Tom ricambia il mio sorriso, mentre mastica con la bocca chiusa.
<Credo non sia più necessario, a questo punto.>
Abbasso le labbra per un secondo, lasciandogli intuire dalla mia espressione che in fin dei conti sono d’accordo con lui.
<Ti chiami davvero Tom, o è un diminutivo?>
Volevo porgergli questa domanda già da un po'.
Lui avvicina la tazza alla bocca per bere il latte che è rimasto sul fondo, troppo poco per aggiungere ancora dei cereali.
<Mi chiamo Thomas.>
<Thomas.>
Ripeto, mentre lui si avvicina al lavandino e apre il rubinetto, per lavare la tazza e riporla al suo posto.
<Puoi prestarmi il tuo telefono?>
Chiedo, rivolta alle sue spalle.
Lui si gira di mezzo lato e mi guarda con la coda dell’occhio.
<Non so se sia prudente, per la tua sicurezza.>
<Lo è eccome.>
Dico, prendendo un pugnetto di cereali dalla busta e portandomelo alla bocca.
<Devo giustificare la mia assenza con mio padre, altrimenti sarò in pericolo per davvero, tutti lo saremo.>
Accenno un sorriso per lasciargli intendere che non si tratta di un grave pericolo reale.
Lui sbuffa, ma si avvicina a me porgendomi il cellulare che teneva nella tasca interna della giacca nera.
<Meno dettagli possibili.>
Mi avverte, io sorrido prendendo il telefono, e mi siedo su uno degli sgabelli.
Digito il primo numero che mi viene in mente, nonché l’unico che ho imparato a memoria, in caso di emergenza.
<Pronto?>
<Danny, sono io.>
<Mandy? Che succede, stai bene?>
Percepisco immediatamente il panico nella sua voce, vedere sul display un numero diverso dal mio deve averlo allarmato.
<Sto bene, non preoccuparti. Ho bisogno di un favore.>
<Certo, che ti serve?>
Tiro un lungo sospiro, preparandomi a ciò che devo dire, cercando le parole giuste senza fornire troppi dettagli.
<Devo stare fuori per un po', ho bisogno che tu dica a mio padre che mi trovo da voi.>
Betty e Daniel condividono un piccolo appartamento da quando lavorano entrambi al casinò. Ho provato più volte a convincerli di alloggiare in una delle camere al piano di sopra, ma hanno sempre rifiutato, dicendo che non vogliono vivere nel posto in cui lavorano.
<Che significa che devi stare fuori, dove di preciso? E per quanto tempo?>
Tom nel frattempo ha finito di lavare la tazza, e si è appoggiato al bancone di marmo bianco, davanti a me.
Decido di ignorare la prima domanda di Danny, perché oltre ad allarmare lui potrebbe metterci in pericolo rivelare la nostra posizione al telefono.
E anche se mi sembra assurdo credere che qualcuno possa ascoltare le nostre telefonate, come se mi trovassi in un dannato film, mi tocca essere prudente per sicurezza.
<Un paio di giorni.>
Dico, alzando lo sguardo verso Tom. Lui, in risposta, alza le sopracciglia per sottolineare la scemenza che ho appena detto.
<Una settimana, magari.>
Mi correggo, guardandolo ancora, e stavolta lui inclina la testa di lato.
<D’accordo, non lo so quanto tempo ci vorrà. Tu digli che starò da voi per un po' e che ho lasciato il cellulare al Saudade’s.>
<Ma mi riempirà di domande, cosa dovrei dirgli quando mi chiederà il perché? Sai che non sono bravo a inventare le bugie sul momento.>
In effetti, Danny è il peggior bugiardo che io conosca.
<Fatti aiutare.>
Concludo, decisa a interrompere quella telefonata, perché ho altro a cui pensare.
<Mandy, ma...>
Daniel fa per parlare, ma la voce di Betty in leggera lontananza lo interrompe.
<Ci penso io Mandy, tu divertiti con il tuo Christian.>
Mi urla, e io ringrazio di non aver inserito il viva-voce.
<Christian? Chi è Christian?>
Daniel chiede chiarimenti, ma io ho già detto tutto quello che dovevo, e Betty mi ha dato la risposta che mi serviva.
<Bene, grazie B. Devo andare ora, vi voglio bene.>
Consapevole del fatto che Daniel non avrebbe chiuso la telefonata tanto facilmente, premo il tasto rosso senza dargli il tempo di fiatare.
Poggio il telefono sul bancone, tra me e le mani di Tom, poi lo guardo con un sorriso.
<Allora, il serpente dov’è?>
<Smetterai mai di chiamarlo così?>
Proprio come la sera precedente, questo momento mi sembra troppo intimo. Come se quella casa fosse la mia, e il volto dell’uomo davanti a me sia uno dei primi che vedo ogni mattina. Come se lo conoscessi da sempre, e lui conoscesse me nel profondo, e quella conversazione non avesse nulla di strano o di nuovo.
<No.>
Sorrido, anche se i pensieri iniziano ad assillarmi.
<È in palestra, al piano di sopra.>
Mi trattengo dallo spalancare la bocca al solo pensiero che non solo possiede un enorme attico all’ultimo piano di un enorme palazzo, ma c’è anche una palestra.
<Bene.>
Dico, voltandomi di spalle per raggiungere l’ascensore.
<Dove vai?>
Urla dalle mie spalle.
<In palestra, vuoi venire anche tu?>
Mi fermo e mi giro verso di lui. Lo vedo alzare le mani sopra le spalle e dirigersi verso il divano.
<No grazie, chi li sopporta quei due quando si allenano.>
Si lascia cadere sul divano e incrocia le caviglie, io alzo le spalle e riprendo a camminare verso l’ascensore.
Quando entro mi rendo conto che la pulsantiera non riporta nessun numero, solo una freccia che punta verso l’alto e un’altra verso il basso. Bizzarro, suppongo, ma non ci faccio caso e premo quella rivolta verso l’alto. Il pulsante diventa blu, le porte si chiudono e l’ascensore inizia a salire.
Quando le porte si riaprono, la luce quasi mi acceca.
Davanti a me, uno spazio aperto della grandezza dell’attico al piano di sotto, è illuminato dalla luce del sole che entra dalle vetrate che riempiono tutte le pareti.
Nessun vuoto tra le finestre, intorno a me solo vetrate, che circondano l’enorme spazio.
A differenza della casa al piano di sotto, qui non ci sono stanze, o porte, è solo un gigantesco spazio aperto e vuoto.
Al centro, davanti a me non molto lontano, un tappetino morbido rosso somiglia ad un ring da boxe. Intorno, sul pavimento, sono abbandonati pesi ed elastici da palestra.
E sul tappetino rosso, con addosso solo dei pantaloncini neri lunghi fino al ginocchio, e gli addominali lucidi per via del sudore, il serpente tiene la guardia alta e ondeggia da una gamba all’altra. Maverick, davanti a lui, con le mani chiuse a pugno, fa per colpirlo con un gesto fulmineo. Ma Logan si getta di lato ed evita il colpo, muovendosi con la grazia di un re guerriero.
Resto immobile, incantata da quella danza che sa di forza ed eleganza, ma schivando l’ennesimo colpo il serpente si volta nella mia direzione e mi nota.
<Dormito bene?>
Mi chiede, mentre io mi imbambolo con lo sguardo sui suoi pettorali sudati.
<Forse dorme ancora.>
Ammicca Maverick.
<Amanda?>
Logan mi richiama e io finalmente riesco a distogliere lo sguardo e a puntarlo su di loro.
<Si?>
Mi schiarisco la voce.
<Ti senti bene?>
<Alla grande.>
Inizio a camminare verso il tappetino rosso, quando arrivo mi fermo e incrocio le braccia al petto.
<È arrivato il momento di darmi delle risposte, serpente.>
Logan fa un cenno a Maverick, che in totale silenzio si muove sul tappetino e si dirige verso l’ascensore, lasciandoci da soli.
<Hai preso lezioni di autodifesa, vero?>
Si lascia cadere sul tappetino, mentre il suo respiro si calma, riprendendo un andamento regolare. Poggia i gomiti per terra, assumendo una posizione semi sdraiata, e i suoi addominali si contraggono e luccicano ancora.
<E tu che ne sai.>
Socchiudo gli occhi leggermente, mentre lui alza le spalle.
<Ho visto come hai bloccato Maverick quando credevi che volesse farti del male, la prima volta.>
<Avrebbe potuto liberarsi facilmente, perché non ci ha neppure provato?>
<Per non farti male.>
Alzo le spalle e distolgo lo sguardo per un attimo, concentrandomi sul panorama sotto di noi, parlargli mentre se ne sta seminudo davanti a me è destabilizzante.
<Resta il fatto che non saresti riuscita a bloccarlo, se non avessi preso lezioni di difesa.>
Torno a puntare gli occhi su di lui e allungo le braccia lungo i fianchi.
<È rilevante?>
<Oh, si che lo è.>
Si alza senza il minino sforzo, si ferma davanti a me e stavolta è lui ad incrociare le braccia al petto, mentre i suoi bicipiti si contraggono e il serpente sulla clavicola cambia posizione.
<Se riesci ad atterrarmi ti darò tutte le risposte che vuoi.>
Mi trattengo dal ridere.
<Sono nettamente in svantaggio.>
Dico, abbassando lo sguardo su tutto il suo corpo, per sottolineare il fatto che la sua stazza è troppo per me.
Io sono magra e minuta, lui è alto e possente.
<Non si tratta di forza, ma di strategia.>
Seppur consapevole della sconfitta che mi aspetta, alzo le spalle e lo supero, posizionandomi dietro di lui sul tappetino rosso, ben salda sulle gambe.
Se questo è quello che mi tocca fare per avere risposte, devo almeno provarci.
Lo guardo, mentre lui si volta sorridendo, e i suoi occhi grigi scendono sulle mie gambe nude.
<Prima cambiati.>
Sorrido perfida, come se avessi già vinto quella battaglia impossibile.
<Che c’è, ti lasci distrarre da un paio di gambe nude?>
Con andatura lenta si avvicina a me, e si ferma ad un soffio dal mio viso.
<Se devi stare sotto di me semi nuda, non sarebbe meglio se accadesse su un letto, invece che su un vecchio materassino da palestra?>
Sorrido e incastro i miei occhi nei suoi.
<Sei un tradizionalista?>
Si avvicina ancora un po', ed io vorrei alzare il mento per avvicinarmi di più alle sue labbra.
<E tu sei così sfrontata anche senza le mutandine?>
Alzo un sopracciglio, e lui sorride come se stessimo giocando a battaglia navale e lui avesse appena affondato una delle mie navi.
<Ti piacerebbe scoprire come sono senza le mutandine, ma non credo di essere attratta dai serpenti schifosi.>
Ricambio il suo sorriso vittorioso, perché a questo punto è senza dubbio un pareggio.
<I serpenti schifosi sanno fare magie con la lingua.>
Mi blocco, e lui si allontana da me sorridendo.
Si posiziona con le gambe distanziate e le mani chiuse a pugno davanti al viso, qualche passo lontano da me.
<Vediamo che sai fare.>
Dice, mentre io mi sforzo di chiudere la bocca e battere le palpebre.

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