Attraverso l'obbiettivo

6.9K 198 39
                                    

<Come stai, pulce?>
<Sto bene, mamma.>
Ines Hernandez, nonché mia madre, è una figura materna particolare.
Mi ha sempre amata incondizionatamente, ed io questo l’ho sempre saputo.
Quando è tornata in Spagna, però, non le è importato di me.
Certo, io vado a trovarla quasi ogni estate. Amo la Spagna, i miei abuelos, e tutto l’affetto che mi accoglie lì ogni volta. Mamma è dolce, premurosa e attenta. A volte ci lasciamo andare a delle follie, come quella volta in cui eravamo rimaste a girovagare per la città per tutta la notte, e al nostro ritorno Robert, il mio patrigno, ci aveva rimproverate come un vero papà spagnolo.
Robert mi piace, mi piace come tratta la mamma e mi piace la luce che le ha donato. Quella che non ha mai avuto con papà.
Mi piace anche la mia mamma, nonostante la sua esuberanza, è solo che a volte vorrei che fosse più vicina. Vorrei poter fare con lei tutte le cose che le figlie fanno con le madri, e non solo per qualche settimana all’anno.
Avrei voluto che lei fosse stata qui, quella notte di quattro anni fa, quando papà mi ha trovata sanguinante sul pavimento, mentre io gli dicevo che ero scivolata su qualcosa di appuntito. Forse, se lei ci fosse stata, le avrei detto la verità.
Forse con lei mi sarei concessa un po' di fragilità, forse sarei riuscita a dirle che mi faceva male di più il cuore che la gamba.
Ma lei non era qui, c’era solo un telefono, una chiamata, e qualche messaggio.
Mamma si era preoccupata, è ovvio, ma le avevo assicurato di stare bene, le avevo detto che non serviva raggiungermi.
Avevo mentito, si, ma era stato meglio.
<Stai mangiando, vero?>
<Si, mamma, non preoccuparti.>
Esco dal bagno con un asciugamano fra i capelli, e mi lascio cadere al centro del mio enorme letto, assumendo la forma di una stella marina.
<E gli incubi, come va con quelli? Riesci a dormire meglio grazie a quelle pillole?>
<Si, alla grande.>
Non è vero, in realtà. Non dormo per niente bene.
Sono quattro anni che gli incubi non mi danno tregua, quattro anni che mi sveglio d’improvviso sudata e con il cuore impazzito.
Quattro anni che, ogni notte, rivedo lo stesso viso, le stesse labbra che mi sussurrano parole d’amore che non riesco a dimenticare. E poi un coltello mi taglia la pelle.
<D’accordo, adesso devo andare. Robert vuole una mano in garage.>
<Va bene.>
<Ti voglio bene, tesoro.>
<Anch’io, mamma.>
Finalmente la telefonata si è conclusa, erano due ore che mi teneva incollata al cellulare e mi sottoponeva a un interrogatorio.
Mi tolgo l’asciugamano e inizio a massaggiarmi i capelli, l’ho tenuto per troppo tempo e adesso mi fa male il cervello.
È la prima volta che mi ritaglio del tempo per me, da quando sono scesa a patti con un serpente. Ero stata così nervosa, così sulle spine, che non ero riuscita a rilassarmi neanche per un attimo.
I miei piani per il pomeriggio sono semplici: dopo una bella doccia rigenerante, voglio solo spaparanzarmi sul mio lettone e fare una maratona di documentari.
Quelli sugli animali, che sono in assoluto i miei preferiti. Ne ho guardati a dozzine, probabilmente. La voce narrante che racconta le vicende dei cuccioli mi rilassa in modo vergognoso, così tanto che alle volte finisco per addormentarmi, proprio sul più bello. È una delle tattiche che utilizzo per prendere sonno, in effetti, da quando l’insonnia è diventata una mia amica poco desiderata.
Mi allungo sul letto e tento di far scivolare il telecomando dal comodino al materasso, con il piede. Allungo la gamba il più possibile e muovo le dita per spostare il telecomando, ma proprio quando ci arrivo vicina un crampo infernale mi colpisce alla gamba. Scatto in piedi, chiudo gli occhi e mi premo la mano sulla bocca. Fa così male che vorrei urlare, ma sembrerei patetica, anche se sono in camera da sola e nessuno potrebbe assistere alla mia vergognosa sopportazione del dolore.
Qualcuno bussa alla porta con tre tocchi, un modo di bussare alquanto insolito, ma io so perfettamente chi usa farlo.
Mi muovo lentamente, imprecando in silenzio a causa del crampo che non è ancora del tutto passato. Apro la porta, e Greg se ne sta impalato con una scatola in mano e la sua imbarazzante uniforme. Ho proposto più volte a papà di cambiarle, ma non mi sta mai a sentire.
<Che cosa c’è, Greg? È il mio giorno di vacanza.>
Non è vero, non ho mai un giorno di vacanza, perché non ne ho mai desiderato uno.
<È arrivato questo per te.>
Senza aggiungere altro, posa la scatola fra le mie mani e se ne va, camminando dritto come una matita.
Sbuffando, chiudo la porta e getto la scatola sul letto. Resto a fissarla per qualche minuto, cercando di riflettere. Ho ordinato qualcosa?
La mia mania di ordinare online è quasi un’ossessione, ma non mi risulta di aver effettuato nessun ordine di recente.
Prendo le forbici sulla piccola scrivania accanto alla tv, taglio il nastro adesivo e spacchetto.
Infilo una mano dentro, senza guardare perché le sorprese mi rendono a dir poco euforica, e tocco il contenuto. Morbido, ma ruvido. Sposto la mano e tocco dei bottoni, e poi una cerniera.
Stringo l’oggetto fra le dita, e lo alzo corrugando le sopracciglia.
Non è nient’altro che un jeans. Un semplicissimo paio di jeans.
Cerco di riflettere ancora, ma davvero io non l’ho mai ordinato. Il mio armadio, per altro, è pieno fino all’orlo di paia di jeans.
Mentre osservo i pantaloni, con ancora le sopracciglia aggrottate e la bocca storta, il mio cellulare vibra sul comodino.
Getto i jeans sul letto, prendo il cellulare, e leggo l’email diventando viola.

BluffDove le storie prendono vita. Scoprilo ora