Freccette

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Carico il pugno sulla mano destra e faccio per colpirlo, ma lui lo schiva con un gesto fulmineo, come se l’avesse previsto.
Riporto i pugni vicino al mento, e ondeggio su una gamba e l’altra, lui sorride restando fermo di fronte a me.
Gli giro intorno, per non lasciargli intuire la mia prossima mossa, poi faccio una finta con la mano destra e cerco di colpirlo con la sinistra. Lui mi blocca, prendendomi per il polso, e il suo sorriso si allarga ancora mentre inclina la testa.
<Sei troppo lenta.>
Dice, lasciando andare il mio polso, e io torno in posizione.
Continuiamo a girarci intorno, come una danza senza musica, ma lui non si avvicina mai, non colpisce mai. Lascia che sia io a tentare di colpirlo, ma i miei pugni centrano solo l’aria, e le mani cadono sempre nel vuoto.
Ha ragione, sono troppo lenta, lui invece è rapido e attento.
Se davvero si tratta di strategia, io sono davvero una pessima stratega, perché non ho idea di cosa possa fare per atterrarlo.
<Devi individuare il mio punto debole, tutti ne abbiamo uno.>
Continuiamo a girarci intorno, io tengo i pugni alti e gli occhi socchiusi.
<Il tuo, per esempio>dice, muovendo qualche passo verso di me, così da venirmi vicino. <è la gamba sinistra.>
Con la velocità di un felino, poggia le mani sulle mie spalle, la sua gamba sinistra si incastra fra le mie cosce, mentre la destra ruota intorno alla mia caviglia sinistra. Mi fa lo sgambetto, e tira leggermente le mie spalle verso di sé con le mani, mentre le mie ginocchia si piegano e finisco con il culo per terra.
Si abbassa su di me, e mi blocca i polsi sopra la testa, mente mantiene le mie gambe distanziate con un ginocchio nel mezzo.
Una mossa che non mi aspettavo per niente, per questo mi ritrovo sotto di lui con un leggero affanno.
<Hai perso.>
Pronuncia, ad un centimetro dal mio naso.
Eppure io non mi sento per niente sconfitta, anzi. Mi sento meravigliata, perché non lo credevo capace di tanta astuzia e scaltrezza.
E mentre mi trovo sotto di lui, con i polsi stretti tra le sue dita, i nostri respiri spezzati e il sudore lungo la fronte, il mio cuore prende a battere veloce.
Ma non per colpa dello sforzo fisico, no, affatto. È qualcos’altro, qualcosa di puro e quasi sconosciuto. Qualcosa che volteggia dentro di me, salta e balla, fa le piroette e ride, ride, ride.
I suoi occhi incontrano i miei, e io ci vedo di nuovo l’argento dentro. Lo vedo brillare e volteggiare, come quella cosa che sta dentro di me.
E mi chiedo, per un attimo, se anche dentro di lui c’è qualcosa che ride in questo momento. Mi chiedo se sia possibile che due cuori si tocchino, che si tengano per mano, che si assomiglino.
Il suo sguardo scende sul mio collo, mentre siamo immersi nel silenzio, e i nostri respiri si fondono come se l’uno fosse quello dell’altro.
I suoi occhi scendono ancora, ed io mi sento come un quadro. Uno di quelli che tutti guardano di sfuggita, distratti dal resto delle cornici. Distratti dagli altri capolavori, che sono sempre più colorati, più gioiosi, meno soli e meno tristi.
E i quadri osservati di sfuggita bramano uno sguardo come quello, un osservatore che li ammiri per ciò che sono davvero. Qualcuno che vada oltre i colori spenti e la vecchia cornice di legno, ai soggetti troppo piccoli, o agli alberi un po' storti.
I quadri osservati di sfuggita aspettano solo di essere guardati per davvero, da qualcuno che non si distrae, che non alza le spalle prima di posare lo sguardo sui colori di qualcun altro.
E forse io sono come tutti quei quadri, forse sono sempre stata guardata di sfuggita da qualcuno troppo distratto, e forse non me ne sono resa conto fino a ora. Ora che qualcuno mi sta guardando per davvero.
Una delle sue mani lascia i miei polsi, che però restano ancora ben bloccati, grazie alla presa forte dell’altra mano. La sua mano libera tocca la pelle della mia coscia, ed io sussulto, perché quel tocco è diverso.
Non somiglia al modo in cui gli altri mi hanno toccata finora.
Quasi trattengo il respiro mentre lui sfiora la mia pelle con delicatezza, con la punta delle dita, e i suoi occhi cercano i miei come se volessero prima un invito.
E io lo invito, in silenzio, senza neppure rendermene conto, gli apro le porte e lo autorizzo a prendere tutto ciò che vuole, se lo vuole.
Poi la sua mano si ferma di colpo, ed io sento una leggera pressione sulla gamba, un bruciore lieve che conosco bene.
Entrambi abbassiamo lo sguardo nello stesso momento, ma le emozioni che ci illuminano gli occhi non sono le stesse.
In lui compassione, tristezza, sorpresa.
In me paura, sgomento, e senso di colpa.
Mi libero i polsi facilmente, forse perché la sua presa si è allentata una volta che i suoi occhi si sono posati sulla mia cicatrice, e le sue dita ci sono rimaste poggiate sopra. Lo spingo via, e lui si scosta facilmente da sopra di me.
I suoi occhi neanche mi guardano, mentre mi alzo e mi incammino verso l’ascensore, sono persi nel vuoto.
Non avrei mai voluto che la vedesse, mai. Da quattro anni faccio di tutto per nasconderla, agli altri ma anche a me stessa. Tutto per evitare quello sguardo, quello stesso sguardo con cui mi ha guardata lui.
Come se fossi fatta di vetro, un vetro fragile e scheggiato, che va maneggiato con attenzione per evitare di romperlo ancora di più.
Ma io non voglio essere questo, non voglio essere come il fragile vetro, ma forte e resistente come il ferro.
Perché magari si, mi hanno piegata in passato, ma io non mi sono lasciata spezzare, quello mai.
Poco prima che le porte dell’ascensore si chiudano, getto lo sguardo nella sua direzione, ma non mi meraviglio quando lo ritrovo esattamente dove l’ho lasciato.
In ginocchio sul tappetino rosso, lo sguardo rivolto verso il vuoto, come se quella cicatrice bruciasse sulla sua pelle e non sulla mia.
Quando arrivo al piano di sotto esco dall’ascensore come una furia, abbassando ancor di più l’orlo della lunga maglietta, così da evitare che qualcun altro oltrepassi il mio confine. Cammino veloce, diretta alle scale, e Maverick e Tom si zittiscono di colpo quando passo. Stanno seduti stravaccati sui morbidi divani, e prima di notarmi stavano ridendo come matti.
Io però non li degno di uno sguardo, e inizio a salire i gradini, a testa bassa.
<Dove corri?>
Tom parla da dietro di me, ma io continuo a salire in silenzio.
<È quasi ora di pranzo, cosa ti piacerebbe mangiare?>
<Non ho fame, lasciatemi in pace.>
Quasi mi pento del mio tono, in fin dei conti nessuno dei due uomini ha colpa per ciò che è appena successo al piano di sopra. È solo del serpente la colpa, sua e delle sue manipolazioni. Ma è anche mia, in fondo, perché mi sono lasciata manipolare e ho preso parte al suo gioco.
Arrivata nella mia camera mi chiudo la porta alle spalle e lascio scattare la chiave, poi mi chiudo in bagno e lascio che l’acqua della doccia si porti via le mie lacrime.
Resto chiusa in camera per tutto il giorno, e quando la luce del sole inizia a calare mi siedo sul pavimento davanti alla vetrata. 
Aspetto, e osservo il cielo cambiare i suoi colori, piano ma allo stesso tempo troppo in fretta.
Amo il cielo, lo amo da sempre. Amo la sensazione di pace che mi da, la rassicurante certezza che ogni giorno, a prescindere che sia un giorno felice oppure no, lui sarà sempre lì.
Sarà lì a guardarmi, è sempre stato lì, testimone di tutte le mie cadute, ma anche spettatore di tutte le mie vittorie silenziose.
Come quando riesco ad asciugarmi le lacrime, anche se sento il vuoto dentro, anche se piangere è l’unica cosa che mi ricorda che sono viva.
Qualcuno bussa alla mia porta, un suono leggero ma sicuro.
<Chi è?>
Chiedo, e la mi voce mi suona strana, dopo tutte le ore trascorse in silenzio.
<Chi è?>
Ripeto un’altra volta, perché alla prima nessuno ha risposto, ma neppure adesso.
Perciò mi alzo e mi avvicino alla porta, senza sapere se ho voglia di parlare con qualcuno o se preferirei restare sotterrata sotto le coperte.
Faccio scattare la chiave e apro uno spiraglio, il giusto per guardare fuori con un occhio. Ma non c’è nessuno davanti la porta, perciò la apro un altro po' per controllare meglio il corridoio.
Ai miei piedi qualcosa è stato ripiegato e sistemato sul pavimento.
Mi piego in avanti e prendo ciò che è stato lasciato, poi rientro in camera e richiudo la porta.
Mi siedo sul letto e osservo ciò che ho tra le mani.
Un pantalone della tuta, comodo e caldo, e una felpa con cappuccio. Entrambi neri e da uomo, ma la taglia dovrebbe andarmi.
Chi li avrà lasciati? Forse Tom, è il più premuroso.
Mi viene da sorridere al solo pensiero che posso finalmente togliermi questa inutile t-shirt, perciò me la sfilo di fretta e indosso i nuovi abiti.
Devo fare un risvolto ai pantaloni, perché sono troppo lunghi per me e leggermente grandi, ma la felpa mi accarezza come una calda coperta.
A questo punto la luna è già alta in cielo, e probabilmente deve essere passata l’ora di cena. Solo adesso il mio stomaco inizia a lamentarsi, probabilmente perché finalmente il mio umore ha ritrovato stabilità.
Perciò, nonostante preferirei dormire per i prossimi giorni e non interagire con anima viva, mi faccio coraggio e scendo al piano di sotto in cerca di cibo.
Proprio come questa mattina la casa è silenziosa come se fosse disabitata, e al piano di sotto non faccio nessun incontro.
Tanto meglio.
Ricordo di aver trovato il frigorifero completamente vuoto la notte scorsa, perciò stavolta mi ci avvicino pregando che si sia magicamente riempito durante il corso della giornata.
E quando lo apro soffoco un gridolino di gioia, perché si, è stato riempito.
Prendo tutto l’occorrente, e cercando negli scaffali trovo anche le fette di pane, tutto ciò che mi serve per farmi un bel panino.
Il mio stomaco applaude quando finalmente addento il primo morso, ed è in quel momento che mi rendo conto che stavo morendo di fame.
Lo divoro in pochi morsi, e rapita dalla fame ne preparo subito un altro. Alla fine mi concedo un bel bicchiere di coca light, e sospiro sazia e soddisfatta.
Rimetto tutto a posto, dove l’ho trovato, e mi decido di ritornare in camera.
Per fare cosa? Non ne ho idea.
Non ho il cellulare, e nella camera non c’è una tv, quindi probabilmente guarderò il soffitto aspettando che il sonno venga a trovarmi.
Ma quando mi incammino verso le scale un suono, proveniente da una delle stanze lungo il corridoio, cattura la mia attenzione.
Mi avvicino di qualche passo e tendo l’orecchio.
Sento risate e un rumore particolare, che mi ricorda le palline da biliardo che sbattono tra loro.
Il serpente, la sua guardia del corpo e il suo autista, ridono di gusto e io quasi mi sorprendo.
Ho sentito ridere Logan spesso da quando lo conosco, ma mai così, mai così di cuore.
È come se tra loro ci fosse un rapporto che va ben oltre l’ambito professionale, è più simile a…
a quello che abbiamo io, Daniel e Betty.
Ancor più incuriosita, cammino in silenzio verso la porta socchiusa da cui provengono le risate. Chiudo un occhio, e con l’altro osservo la camera dalla fessura. Ma non vedo niente, probabilmente si trovano sul lato opposto, perché io riesco a vedere solo una parete color onice.
Mi appoggio allo stipite della porta, cercando di spostare la mia visuale, con la speranza di vedere qualcosa. Ma probabilmente gli dei amano prendermi in giro, perché per sbaglio sfioro la porta e questa si apre del tutto in un baleno.
Mi ritrovo in piedi sulla porta, con ancora un occhio chiuso e l’altro aperto, mentre i tre uomini all’interno si zittiscono di colpo e si girano a guardarmi.
Stanno in piedi davanti un tavolo verde da biliardo, su cui le palline stanno sparpagliate. Tengono tutti in mano una stecca lunga e luccicante, e sul bordo del tavolo i bicchieri di cristallo, pieni di liquore scuro, brillano sotto la luce fioca.
<Scu-scusate.>
Riesco a balbettare, rimettendomi dritta e aprendo entrambi gli occhi.
<Non volevo disturbare, io...io volevo solo...me ne vado.>
Faccio per voltarmi e andarmene, mentre il mio viso si colora di rosso, e vorrei mettermi a urlare per quanto sono sbadata a volte.
<Puoi restare.>
Il serpente parla da dietro di me, e io mi ritrovo a stringere i pugni lungo i fianchi sentendo la sua voce.
<Se vuoi, ovviamente.>
Torno a voltarmi verso di loro, e nel frattempo cerco di farmi venire in mente una scusa appropriata per declinare l’invito.
<Io...>
Balbetto ancora, e quando succede mi sento così stupida che vorrei prendermi a pugni da sola.
<Ma si dai, resta.>
Tom mi guarda con i suoi soliti occhi marroni, comprensivi e accoglienti, ed io non riesco a dire di no a quell’uomo.
Senza dire una parola, annuisco ed entro nella stanza, avvicinandomi ad una delle poltrone di pelle nera sistemate all’angolo della stanza. Mi siedo sperando che smettano di guardarmi come se fossi un gattino in gabbia.
<Sei arrivata giusto in tempo.>
Il serpente mi sorride, e improvvisamente dimentico il buio che si è impossessato dei suoi occhi questa mattina.
<In tempo per cosa?>
Riesco a dire, e una parte di me vorrebbe riuscire a guardarlo negli occhi senza distogliere lo sguardo, ma non ci riesco.
<Per assistere alla sconfitta stracciante di Maverick.>
Logan sposta lo sguardo sulla sua guardia del corpo, mentre Tom si porta una mano alla bocca per nascondere una risata.
<Va’ a farti fottere, coglione.>
A quel punto scappa una risata anche a me, perché non solo mi fa strano sentire parlare Maverick, dato che di solito non mi rivolge la parola, ma sentirlo parlare in quel modo è davvero una sorpresa.
<È completamente sbronzo.>
Mi bisbiglia Tom, portandosi una mano al lato della bocca, e io guardo ancora l’uomo addetto alla sicurezza ridendo.
<Coglione pure tu, ti ho sentito.>
Tom e Logan si scambiano uno sguardo complice, poi entrambi scoppiano a ridere, e anche stavolta la risata del serpente mi colpisce in pieno.
Mi entra dentro, come se la sua felicità del momento riempisse di gioia anche me.
<Non sono sbronzo.>
Insiste Maverick, cercando di sovrastare le risate degli altri due.
<Questo è un gioco del cazzo.>
<Non riesci a vincere a nessun gioco, Rick, non cercare scuse.>
Rick.
Logan gli rivolge quel soprannome come se fosse l’unico nome con cui lo chiama da sempre, e questo mi fa sentire estranea alla situazione, di troppo.
Sono sempre stati loro tre, chissà da quanto tempo, e adesso sono uscita fuori io, che non c’entro un bel niente.
Però loro non mi trattano come un ospite, come una che è lì ma che non  dovrebbe starci, tutt’altro.
<Ah, si?>
Maverick posa la lunga stecca sul tavolo verde, prende il suo bicchiere dal bordo del tavolo e lo svuota in un sorso.
<Andiamo a tirare, e vediamo se riderai ancora così tanto dopo.>
Tom e Logan si scambiano un altro sguardo sorridendo, mentre Maverick fa schioccare la lingua, serio.
<Tirare?>
Dico, parlando dall’angolo della stanza.
<Vuoi giocare a freccette?>
Vorrei poterlo nascondere, ma non ci riesco, il sorriso nasce spontaneo sulle mie labbra.
<Più o meno.>
Mi risponde Maverick, guardandomi con la coda dell’occhio.
Io resto zitta in attesa di spiegazioni, finché Logan non posa anche lui la stecca sul tavolo e si avvicina di qualche passo.
<Diciamo che le regole sono le stesse, solo che non ci sono le freccette.>
Aggrotto le sopracciglia, e guardo Tom e Maverick che da dietro il serpente sorridono ancora divertiti.
<E con cosa tirate, allora?>
<Non tiriamo.>
Logan si appoggia sul bordo del tavolo da biliardo, prende il suo bicchiere e lo svuota, leccandosi le labbra rosse.
<Spariamo.>
Conclude, mentre io spalanco gli occhi e Tom e Maverick si avvicinano alla porta.
<Con le pistole.>
Aggiunge Tom, come se fosse necessario un chiarimento.
<Bellissime pistole.>
Sottolinea Maverick, sognante.
Per qualche strano e davvero assurdo motivo, le mie labbra si piegano in sorriso curioso.
<Fatemi vedere.>
Mi alzo dalla poltrona e i miei occhi incontrano quelli del serpente, che in risposta mi sorride perfido e compiaciuto.

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