Marchiata a vita

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Il sonno venne a cercarmi presto, dopo essere tornata nel mio letto.
E nei miei sogni, stavolta, non ci fu nulla di spaventoso.
Perché imparerò a difendermi, una volta che il sole inizierà a illuminare le strade.
Imparerò dal serpente tutto ciò che sa, poi richiederò un porto d’armi per l’autodifesa, e a quel punto sarò pronta.
Sarò pronta ad ogni cosa, per quando le ombre del mio passato verranno a cercarmi, oppure per quando verranno quelle di Logan.
Non mi sentirò più spaventata, o indifesa, o fragile come un ramoscello.
Sarò forte come una tempesta, pericolosa come il fuoco, devastante come un terremoto.
Sarò come le eroine dei libri fantasy che tanto amo, oppure qualcosa di più simile ad Angelina Jolie in Mr. & Mrs. Smith.
Sarò agguerrita, senza pietà, inarrestabile, sarò…
<Amanda.>
Una voce mi chiama, ma non riesco a distinguere se si tratta di un sogno o della realtà.
<Amanda.>
Ripete il mio nome che mi rimbomba nelle orecchie, poi una mano si poggia sulla mia spalla e prende a scuotermi con delicatezza.
<Svegliati, avanti.>
Alzo lentamente le palpebre, e metto a fuoco la stanza in cui mi trovo, nel castello del serpente.
Intravedo il cielo oltre le vetrate, dipinto di arancione, rosa e un azzurro chiarissimo. Il sole non è ancora alto, anzi la luna non si è ancora fatta da parte.
È l’alba, e il serpente se ne sta in piedi accanto al mio letto, guardandomi dall’alto.
<Ma che ore sono?>
Chiedo, stropicciandomi gli occhi.
<È l’alba.>
<Questo lo vedo.>
Tiro fuori un braccio da sotto le coperte, e lui mi osserva dall’altitudine della sua posizione.
<Sono le cinque e trenta.>
Aggrotto le sopracciglia e mi guardo intorno.
<E tu che cosa ci fai qui, in piedi accanto al mio letto come un’ombra assassina, alle cinque e trenta del mattino?>
Anche se il suo volto è semi nascosto dal buio che invade ancora la camera, vedo le sue labbra piegarsi in un piccolo sorriso.
<Vuoi ancora che ti insegni ad usare una pistola?>
Basta la parola pistola per far si che il mio battito cardiaco acceleri di colpo.
<Certo che lo voglio.>
<Bene, allora alzati, iniziamo subito.>
È mattino presto, stavo dormendo a sogni beati, e di solito non mi sveglio prima delle undici.
Vorrei tanto continuare a dormire e lanciare un cuscino in faccia al serpente, ma il mio stomaco fa una capriola, e il sangue sembra scorrere più veloce nella mie vene.
Mi alzo di scatto dal letto, mettendomi seduta, pimpante come se mi fossi risvegliata da un sonno lunghissimo e sereno.
Mi cresce spontaneo un sorriso da orecchio a orecchio, e vorrei mettermi a saltare sul letto per calmare l’esagerata felicità che è appena nata in me.
<Cazzo!>
Il serpente ammazza tutto il mio entusiasmo non appena mi metto seduta e le coperte mi scivolano sulle gambe.
Lo guardo con aria interrogativa e le sopracciglia aggrottate mentre lui si scansa di scatto, allontanandosi dal letto con una mano a coprirsi gli occhi.
Si ferma ai piedi del letto, dandomi le spalle, e fissa il muro su cui è appeso il meraviglioso quadro con la luna.
<Che cavolo ti è preso?>
Chiedo, ancora seduta sul letto, inclinando appena il capo.
<A me?>
<Vedi qualcun altro qui? Ovvio che dico a te.>
Fissa ancora la parete, e non sembra minimamente intenzionato a distogliere lo sguardo.
<Che cavolo è preso a te, piuttosto?>
Ma che razza di gioco è questo?
<Senti.>
Dico, con calma, cercando di evitare di tirargli davvero un cuscino.
<Non so se è tua abitudine comportarti come uno che ha un serio bisogno di un manicomio, quando ti ritrovi in una stanza con una donna alle cinque e trenta del mattino.>
Non si sposta di una virgola, resta ancora lì a fissare quel dannato quadro.
<Però, per come la vedo io, è un comportamento bizzarro e irritante.>
<Ma di che stai parlando?>
D’accordo, è ufficiale. Ha bisogno di un aiuto.
<È tua abitudine metterti a fissare la parete quando entri nella camera da letto di una donna alle cinque e trenta del mattino?>
Sbuffa una risata.
<Invece per te è un’abitudine uscire dalle coperte tutta nuda quando un uomo entra nella tua camera da letto alle cinque e trenta del mattino?>
<Ma che diavolo...>
Neanche il tempo di finire la frase che il cuscino che prima stava sul mio letto si ritrova spiaccicato sulla sua nuca.
<Esci di qui!>
Urlo, tirandomi le coperte.
A volte mi succede, durante la notte, a volte ho caldo oppure gli incubi mi fanno sudare. Perciò di solito, in uno stallo tra il sonno e la veglia, mi libero dei vestiti.
Il più delle volte non sono del tutto cosciente quando succede, per questo non me ne ricordo mai una volta sveglia. Ma non mi sono mai posta il problema, dato che dormo da sola in una camera tutta mia in cui non entra mai nessuno.
Non me ne sono per niente resa conto quando il serpente mi ha svegliata, sono stata presa alla sprovvista. E quando mi ha dato la notizia che stavamo per iniziare le nostre lezioni, sono stata così euforica da non pensare a certi dettagli.
<Ti aspetto di sotto.>
Dice, dandomi ancora le spalle mentre si avvicina alla porta.
<Vieni vestita, però.>
Gli lancio anche l’altro cuscino, che va a colpire la porta mentre lui la richiude alle sue spalle.
Non mi concedo il tempo di farmi prendere dal panico o dall’imbarazzo, ormai il danno è fatto. Qualunque cosa abbia visto, quanto di me ha visto, non mi importa.
Presentarmi davanti a lui con la coda tra le gambe e le guance rosse non rientra nei miei piani giornalieri.
Scendo dal letto, recupero la t-shirt che ho evidentemente lanciato sul pavimento durante il sonno, e me la infilo.
Valuto l’opzione di indossare il pantalone della tuta che mi è stato dato in prestito, adesso abbandonato anche lui sul pavimento ai piedi del letto.
Ma, mentre l’osservo, alzo le spalle e inclino la bocca verso il basso.
Fanculo.
Apro la porta e scendo al piano di sotto con addosso solo la t-shirt.
Trovo il serpente seduto su uno degli ultimi gradini della grande scala di legno, con i gomiti sulle ginocchia e le mani giunte sotto al mento.
Finisco di scendere le scale e mi pianto davanti a lui.
Alza lo sguardo lentamente, percorrendo tutta la strada che va dai miei piedi nudi ai miei occhi, e quando il suo sguardo trova il mio alza un sopracciglio.
<Che c’è?>
Dico, incrociando le braccia al petto.
<Hai detto che dovevo vestirmi, ma non quanto dovevo vestirmi.>
<Fai sul serio?>
Adesso ha alzato entrambe le sopracciglia, ed io resisto all’impulso di scoppiare a ridere per la sua espressione da padre contrariato.
<C’è per caso una regola che vieta di impugnare una pistola con le gambe nude?>
Mi muovo all’indietro di qualche passo, avvicinandomi al piccolo corridoio che conduce all’ascensore.
<Io non credo, perciò andiamo, serpente.>
Il suo sguardo scende un’altra volta sulle mie gambe, ed io avverto un leggero brivido che sale dal pavimento e mi arriva allo stomaco.
Questa volta però indugia, rallenta. Si ferma ad osservare un dettaglio, un dettaglio che forse aveva dimenticato, o a cui non aveva più fatto caso dopo quel giorno.
<Avanti, chiedimelo.>
Dico, facendo oscillare le braccia lungo i fianchi, le dita a sfiorare la cicatrice.
<Che cosa dovrei chiederti?>
Torna a guardarmi negli occhi, ed io non mi sento per niente impaurita o in imbarazzo.
<Non mi chiedi come me la sono fatta?>
Si alza dal gradino, facendo forza con le mani sulle ginocchia, e si avvicina a me di qualche passo.
<Non mi importa come te la sei fatta, piuttosto come ti fa sentire, forse.>
Il mio cuore prende a battere un po’ più veloce, e mi ritrovo ad inclinare leggermente il capo, a studiare il viso forte ma delicato dell’uomo che mi sta di fronte.
È una domanda insolita, la sua, nessuno me l’aveva mai posta prima d’ora.
Ed io posso anche capirlo, a chi mai verrebbe in mente una domanda del genere?
Nessuno si pone il dubbio, nessuno si ferma a riflettere sul come una cicatrice può far sentire chi la indossa.
Per la gente è solo un marchio sulla tua pelle, un simbolo che ricorda una storia.
La storia li incuriosisce, il racconto della nascita di quel segno, piccolo o grande che sia. Il perché lo porti con te, il come è nato, se avresti potuto evitarlo.
Ma nessuno si chiede mai come ti fa sentire, cosa provi quando lo guardi.
Nessuno ti osserva mentre l’accarezzi con tocco leggero, con dita tremanti.
Non ti vedono mentre ci lasci cadere sopra lo sguardo, e non sorridi mai, anzi lo distogli subito quello sguardo.
Nessuno si domanda cosa sentono le tue dita, quando gliele poggi sopra in maniera delicata, come se quella ferita fosse ancora aperta e toccarla potrebbe farla sanguinare ancora.
Eppure lui…
Lui è andato oltre, ha oltrepassato il muro di indifferenza dietro cui la gente si nasconde.
Lui ha guardato più lontano, fin oltre l’orizzonte, lì dove le altre persone non guardano mai per non sforzare la vista.
Ha guardato con lo sguardo di chi ti legge dentro, di chi ti guarda il cuore.
Lui mi ha guardata come nessuno ha fatto mai.
<Sporca.>
Dico alla fine, incatenando i miei occhi nei suoi con catene pesanti.
<Marchiata a vita.>
Vorrei dirgli che va bene, però, che ormai ci convivo.
Che un marchio del genere non è necessariamente qualcosa di brutto, ma che a volte può servire a ricordarti che sei sopravvissuto.
E io me lo ricordo, anche se tremo quando sfioro quella pelle di diverso colore e un po' più ruvida. Però me lo ricordo, me lo ricordo sempre.
Lo vedo chiudere le mani a pugno lungo i fianchi, e stringere così forte da far sbiancare le nocche. Nei suoi occhi cala un velo fatto di ombre e nuvole grigie.
Vorrei dirglielo che non serve, che non è necessario provare pena per me, perché neppure io la provo più per me stessa ormai.
Non voglio la sua pena, la sua compassione, non me ne faccio niente di queste cose.
Voglio la sicurezza che lui possiede, voglio che mi insegni e che mi aiuti a zittire le voci nella mia testa che mi terrorizzano.
Voglio solo che non mi guardi così, come se desiderasse averlo potuto evitare, come se in qualche modo possa essere colpa sua.
Ma non è colpa sua, lui non c’era, e non è neppure colpa mia forse.
Forse non è colpa di nessuno, è solo colpa della vita che a volte se la prende con qualcuno a caso.
Ma non voglio che mi guardi così, non voglio che la luce nei suoi occhi si spenga solo perché io sono stata sfortunata.
Io voglio...voglio che lui…
<Torna a dormire.>
Si volta dandomi le spalle ed inizia a camminare verso il corridoio.
<Che cosa? E la nostra lezione?>
Mi ritrovo ad inseguirlo, e per quanto io cerchi di stare al passo lui resta sempre avanti a me.
<È rimandata.>
<Ma perché?>
<Perché ho da fare.>
Le porte iniziano a sfilare accanto a noi, mentre io continuo ad inseguire il serpente, che cammina ancora troppo in fretta.
<È una bugia.>
Quasi urlo mentre gli corro dietro.
<D’accordo, allora è rimandata perché io ho appena deciso così.>
<Ma tu non puoi...>
Non faccio in tempo a finire la frase che si precipita nell’ultima stanza del corridoio e si chiude la porta alle spalle, rischiando di sbattermela in faccia.
Sento scattare la serratura, segno che si è appena chiuso dentro, oppure ha chiuso fuori me.
È la stessa stanza in cui l’ho sorpreso la prima sera, intento a scaraventare sul pavimento mezza scrivania.
E adesso, tagliata fuori, immobile davanti la porta chiusa a chiave, sento provenire da dentro un tonfo simile a quello di quella notte.
<Logan?>
Dico piano, da dietro la porta, e mi stupisco della facilità con cui il suo nome esce dalla mia bocca. Un nome che prima d’ora non ho mai lasciato toccare le mie labbra.
<L’hai promesso, hai promesso che mi avresti insegnato.>
Poggio una mano sulla porta, e l’accarezzo come se quello fosse il suo petto ed io riuscissi a sentire il suo cuore battere.
<Torna a dormire Amanda, ti prego.>
La sua voce mi arriva ovattata da dietro la porta, ma mi colpisce come se avesse oltrepassato le pareti, come se i suoi occhi fossero posati su di me anche con una porta a dividerci.
Lascio scivolare la mano che tenevo sulla porta, in segno di arresa.
<Vaffanculo, serpente.>
Mi allontano a passo svelto, diretta di nuovo alla mia camera, mentre l’odio torna a sdraiarsi sul mio cuore.
L’odio per un serpente che mi ha quasi morsa e uccisa.

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