CAPITOLO 2

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JULIETTE

Mi rigiravo l'imboccatura della bottiglia di birra mezza vuota tra le dita facendola roteare sul bancone, con lo sguardo fisso sul giornale della città esaminando le offerte di lavoro e tentando di trovarne almeno una che mi invogliasse a iniziare a lavorare, ma fino a quel momento la mia ricerca si era rivelata una causa persa.

Tabaccaia? Noioso e poi avrei finito con il fumarmi tutto ciò che si potesse fumare.

Gelataia? Il mio amore sconfinato per il gelato mi avrebbe fatta cacciare. Mi sarei mangiata tutto.

Barista? Era bello bere, ma non servire e guardare chi poteva spassarsela mentre io dovevo lavorare.

Spazzina? Nemmeno con una pistola puntata alla nuca. Non pulivo la merda lasciata dagli altri.

Maestra? Non avevo neppure il diploma.

Sbuffando irritata schiusi di scatto il giornale, lo appallottolai e, con un lancio da maestra, feci centro nel cestino dietro al bancone del bar di Frank. Non riuscire a trovare nulla che mi attirasse era snervante, non riuscivo a capire cosa mi piacesse fare e cosa no. Per non parlare del fatto che non avevo neppure un diploma, nessuno mi avrebbe presa.

<<Che succede piccola Miller?>> Frank si avvicinò a me mentre tra le mani teneva un calice che stava accuratamente asciugando, con la salvietta di stoffa, stando attento a non lasciare aloni.

<<Una tragedia, non riesco a trovare lavoro.>> Presi un lungo sorso di birra tentando di placare il mio fastidio. Il locale era mezzo vuoto, erano le due di pomeriggio e tutti erano a fare altro o a pranzare, a parte me e qualche signore desideroso di un bello shottino. Stavo bevendo a stomaco vuoto ma sinceramente ne ero abituata, non mangiavo mai molto. <<E a che ti serve, con i soldi dei tuoi potresti vivere di rendita per cent'anni.>> Non era serio, mi stava sfottendo per quanto non avesse comunque tutti i torti, con i loro soldi avrebbero potuto portare avanti altre tre generazioni di Miller.

<<Devo dimostrare alla mia famiglia, Aidan mi ha espressamente fatto capire che sono un peso e che devo darmi una mossa a trovare qualcosa da fare.>> E il fatto che in fondo anche la mia coscienza era consapevole che avesse ragione, mi innervosiva ancora di più. <<Ancora ascolti tuo fratello? Quel ragazzone è tanto intelligente e buono quanto idiota, e lo dico da persona che ucciderebbe sia per te che per lui, che per vostra madre.>> Poggio il bicchiere appendendosi l'asciugamano alla spalla.

<<Lo sai com'è fatto, a volte parla troppo e a sproposito.>> Anche fin troppo spesso.

<<Lo so ma in fondo ha ragione, ho ventiquattro anni e ancora non lavoro.>> Sbattei la fronte sul legno ruvido del bancone. Gli avrei tirato una sberla a quel saputello, ogni volta mi ricordava soltanto che ne sapeva più di me su tutto. Come se non fossi stata già abbastanza consapevole che prima o poi avrei dovuto lavorare. <<Allora ti assumo io, anche tua madre ha lavorato qui, lo sai?>> Alzai di scatto il viso per guardarlo, e accertarmi che avesse seriamente appena detto che era disposto ad assumermi come barista, io come barista? Lo avevo già mentalmente escluso. <<Non sono Isabelle, non sono portata per questo.>> Mi aveva raccontato tutti i lavori che lei aveva fatto da giovane. Barista, cameriera, cubista, architetto e persino aveva aiutato le suore nelle case degli anziani per servire il cibo. No, non ero di certo come mia madre. E neppure come mio padre, sapevo disegnare solo omini stilizzati, lui interi edifici.

Ero un caso perso.

Mi accesi la quinta Winston della giornata, almeno a far quello ero brava. Peccato che non esisteva un lavoro che consistesse solo nel accendersi una sigaretta. <<Ma allora dimmi cosa sei brava a fare, così magari troviamo qualcosa che può fare al caso tuo.>> Si appoggiò al bancone attendendo la lista di cose che ero capace di fare, così per un attimo mi accorsi che effettivamente non mi ero mai soffermata a pensarci seriamente. Cos'ero brava a fare?

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