CAPITOLO 32

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WAYNE

Fermarmi, abbassare la guardia, godere di un istante di pace e ricordarmi una volta ogni tanto che anch'io forse, ero umano. No, a me non era concesso, non potevo.

Non appena abbassavo la guardia qualcosa andava storto, quando seguivo l'istinto al posto della mente e della razionalità, finivo con il trascurare le cose veramente importanti, trascinando con me ogni cosa verso l'abisso. In quel momento eravamo in bilico, io affondavo le dita nel terreno di una sporgenza a cui mi ero aggrappato durante la caduta, con il corpo che penzolava verso la sconfitta a cui era appesa tutta la mia squadra. Sentivo che li sorreggevo, percepivo il peso e tutta la tensione sulle mie spalle e persino dopo aver rischiato di morire, tra le fiamme di quel magazzino decadente che mi stava per crollare sulla testa, non mi potevo riposare un secondo.

Cabrera ci era sfuggito con un paio dei suoi uomini, erano riusciti a sfuggirci durante l'incendio che avevano appiccato apposta e che non avevamo previsto, una svista imperdonabile che sarebbe potuta costare cara all'intero gruppo. Altre vite, che non ero disposto a perdere.

Già fin troppo sangue, aveva macchiato quella missione e avrei fatto in modo che i miei due agenti non fossero morti in vano.

Per il momento avevamo sotto controllo la Davis, Sandra Davis, una pedina di un piano che probabilmente aveva ancora così tanti segreti che dovevamo stare attenti o ci avrebbero fregati ancora.

L'avevamo rinchiusa nelle celle al centro di comando di Londra, il comandante Morris si sarebbe occupato dell'interrogatorio visto che io e il resto dei nostri uomini dovevamo rimetterci in movimento, per raggiungere Washington. Un viaggio di otto ore che ci avrebbe portati direttamente dal vicepresidente.
Il piano era quello di fermarli prima ancora che potessero portare a compimento il loro piano, ma a quel punto non ci rimaneva che agire allertando anche i piani alti.

Dovevamo solo fare in modo che non lo venisse a scoprire il Presidente perchè se così fosse stato, sicuramente avrebbe avvertito Cabrera e io non ero disposto a concedergli un'altra partita vinta. Perchè a quel punto eravamo arrivati alle finali, ci stavamo giocando i mondiali.

Saremmo arrivati al Number One Observatory Circle l'indomani mattina, la squadra era provata ma nessuno di loro era pronto ad arrendersi, ce l'avremmo fatta e loro ci credevano, credevano in me che mi sentivo realmente a pezzi.

Durante la colluttazione con l'uomo della Davis, durante l'incendio, quel bastardo mi aveva ferito al polpaccio con un coltello causandomi un taglio non troppo profondo, per fortuna, che però aveva bisogno di qualche punto. Eppure in quel momento ero talmente distratto da tutto ciò che mi scorreva per la testa, che ancora non mi ero assentato nei bagni del aeromobile militare su cui eravamo, per medicarmi.

Mi ero legato un pezzo di stoffa intorno al polpaccio così da fermare lo scorrere continuo del sangue, ma non sarebbe mai potuta bastare. Lo sapevo, tuttavia in quel momento mi sembrava l'ultimo dei miei pensieri.

Il dolore, non lo sentivo, ci ero abituato.

Avevo perso l'uomo che l'FBI ricercava da anni come un emerito coglione, me lo ero fatto scappare da sotto il naso quando finalmente avevamo la possibilità di prenderlo. Ma doveva esserci stato un motivo se in tutti quegli anni nessuno era mai riuscito ad arrestarlo. Cabrera era furbo, aveva previsto il nostro arrivo e ci aveva preparato una sorpresa che mi sarebbe potuta costare la vita.

E mi rodeva, cazzo se mi rodeva.

Sentivo la rabbia fin sotto le unghie annerite dalla fuliggine che ancora mi portavo addosso, mi sarei dovuto lavare e da lì a poco avrei pensato sia a quello che alla ferita, avevo ancora un lungo viaggio davanti a me, nonostante ciò in quel momento mi persi ad osservare i miei uomini.

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