CAPITOLO 36

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JULIETTE

Non sapevo come mi sentivo, non riuscivo proprio a capirlo.

In ventiquattro anni non avevo mai provato quella sensazione di vuoto che non c'era modo di colmare, non bastavano alcol, sigarette o gente intorno che riempivano i tuoi pensieri. La mente si occupava per un momento di una durata troppo breve, mentre invece nel petto continuavi imperterrita a sentire una mancanza irragionevole. Di quelle che ti spegnevano completamente.

Un istante prima eri quella meravigliosa candela dalla fiamma vivace che rendeva magico un momento, l'istante dopo eri un cumulo di cera sciolta che tutti non vedevano l'ora di buttare, dimenticando quanto la tua fiamma scaldasse le loro membra spoglie.

Tutti sognavano la propria favola. Mamma ad esempio mi parlava sempre di quella che aveva legato lei e mio padre, la storia del bambino dall'anello di metallo, un romantico incontro destinato a durare in eterno come il loro amore. Ma mamma era una sognatrice, un'inguaribile romantica che era cresciuta circondata da persone che le avevano voluto bene fin dal primo momento. Era cresciuta con dei genitori che le leggevano delle favole, quando era bambina, prima che si addormentasse cantandole una dolce canzoncina della buonanotte.

Io non avevo avuto nessuno che, prima che potessi crogiolarmi nel sonno, prendesse uno di quei libricini piccoli e colorati, si sedesse sul bordo del mio letto caldo e mi raccontasse la storia di due amanti che dopo svariate peripezie erano riusciti comunque a ritrovarsi.

Quelle storie in cui lei era bellissima, dolce e svenevole, lui era meraviglioso, divertente e intelligente; poi un giorno arrivava il famoso antagonista rompi scatole che guastava il loro idillio, ma che alla fine mai riusciva a dividerli.

Il mio lettino caldo era stato un giaciglio squallido e colui che veniva a trovarmi prima che potessi addormentarmi, non era di certo un amorevole genitore desideroso di farti passare dei bei sogni, io di sogni non ne avevo mai avuti. Conoscevo solo cosa volesse dire svegliarsi costantemente di soprassalto, con la paura fin sotto le unghie, che da un momento all'altro lui potesse tornare e, insoddisfatto, riprendere da dove aveva lasciato.

All'età di ventiquattro anni però avevo iniziato a credere ad una favola. Quella della Bella e la Bestia.

Chi non la conosceva? Persino io che non avevo mai neanche letto il libro, sapevo di cosa trattasse.

Lui per colpa del suo malsano egocentrismo e una spocchiosa convinzione che lo rassicurava del fatto che al mondo contasse solo la bellezza esteriore, era stato trasformato in una bestia ripugnante.

Lei forte e spinta dall'amore profondo che provava per suo padre, si era ritrovata prigioniera nel castello di quella spaventosa bestia, condannata ad una vita rinchiusa in quelle mura gelide, tra oggetti parlanti e segreti.

Il tutto comandato da una rosa che con il passare degli anni perdeva petali, simili a lancette di un orologio che scandivano il poco tempo che mancava alla bestia prima di rimanere per sempre tale, a meno che una giovane fanciulla non si fosse innamorata di lui.

E successe, lei si innamorò di lui ma per spingerla a fare la cosa giusta lui la lasciò andare.

Il finale era alquanto scontato, essendo una favola, ovviamente godeva del suo lieto fine ma nella vita reale non sempre quelle due semplici parole prendevano significato. Non sempre le si ritrovava impresse all'ultima pagina del libro della propria vita, io di certo non ero tra i prescelti che godevano di quella fortuna.

Il lieto fine... che cazzata, pensai, mentre me ne stavo seduta sul muretto del mio vialetto con una sigaretta accesa tra le dita, un abito fin troppo elegante e costoso per i miei gusti, di un meraviglioso magenta con uno dei soliti spacchi inguinali che mia madre adorava follemente, ma che a me faceva sentire brutalmente in imbarazzo. I tacchi a spillo scricchiolavano sui sassolini quando muovevo i piedi annoiata, i capelli mi ricadevano ingestibili lungo la schiena e le spalle. Mia madre aveva perso due ore a farmi i boccoli ma io li continuavo a muovere passandoci in mezzo le dita, mandando a puttane persino il lavoro precisino che aveva acconciato con lacca.

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