CAPITOLO 40

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WAYNE

Non sapevo cosa stesse succedendo alla mia vita in quel periodo, sapevo solo che se mi avessero chiesto se finalmente avevo conosciuto cosa volesse dire vivere, avrei risposto che no, non avevo compreso cosa volesse dire vivere, perchè lei ti portava a voler scoprire persino cosa vi fosse dopo il limite umano della vita.

Ogni volta che la toccavo, la sentivo, la baciavo, la vedevo sorridere ad ogni mio mezzo complimento, stuzzicarmi per cercare di rubarmi quel sorriso ostico che di rado mi nasceva sulle labbra, sentivo che l'eterno forse non era male come piano per noi due.

Poi mi ricordavo della verità e mi sentivo sprofondare di nuovo nella merda che era sempre stata la mia vita prima di lei, prima della mia realtà con lei, che era tutto tranne ciò a cui ero sempre stato abituato nel corso degli anni.

Non avremmo mai potuto godere del sogno dell'eternità insieme, tutt'altro, la nostra relazione aveva un timer ben preciso che io conoscevo benissimo, mentre a lei era ancora sconosciuto e così sarebbe dovuto rimanere fino alla fine o non si sarebbe goduta il tempo insieme come stava facendo in quei giorni.

Io li passavo tra estrema spensieratezza e l'angoscia di cancellare sul calendario ogni giorno che ci portava sempre più vicini alla fine di quei momenti insieme.

Lei invece li viveva costantemente con il sorriso e non avrei permesso a niente e nessuno di rovinarlo, perlomeno non prima dell'addio che ci attendeva.

Con lei avevo scoperto quanto potesse essere fastidioso doversi alzare dal letto la mattina per andare a lavorare, oppure quanto fosse lento il tempo quando a fine giornata l'unico desiderio che si ha è quello di tornare a casa. Quanto fosse difficile non vederla per tutto il giorno e quanto fosse bello vederla saltellare felice, arrivati a sera quando tornavo a casa, e balzarmi addosso desiderosa delle mie mani sul suo corpo.

Lì dove avevano imparato a conoscere altro al di fuori della violenza, a conoscere anche le carezze e non solo i pugni, il solletico e non solo le prese che portavano alla morte il proprio nemico.

In quel momento come da molte sere a quella parte ormai, sentivo l'impellente necessità di risentire il suo calore nei palmi dopo l'ennesima giornata di lavoro, di vedere il suo sorriso e sentirle dire con quella sua voce da sirena: "Bentornato Capitano", come faceva ogni sera, quando tornavo a casa perchè ormai, trovarla a casa, era diventata un'abitudine.

Chiusi l'armadietto, presi telefono, portafoglio e chiavi della macchina dal tavolo del mio spogliatoio, me li infilai nelle tasche dei jeans e uscii da quella stanza silenziosa, pronto a tornare a casa.

I miei agenti mentre scorrevano lungo il corridoio mi salutarono uno ad uno, mentre tra una chiacchiera e l'altra raggiungevano l'ascensore. Nel frattempo che loro se ne andavano io feci un giro di ricognizione in ogni area della Death zone, controllando che ogni cosa fosse al proprio posto.

Spensi tutte le luci come facevo ogni sera e quando ebbi finito, raggiunsi anch'io l'ascensore, nel silenzio più totale di quella vasta palestra, arrivando al piano terra.

Trascorrere quei minuti chiusi in ascensore, completamente solo, era diventato più sopportabile da quando avevo la certezza che l'avrei comunque rivista quotidianamente, per quanto mi mancasse litigare lì dentro con lei. Era una cattiva abitudine a cui in qualche modo era riuscita a farmi affezionare.

Le porte si aprirono sull'atrio del palazzo ma non ebbi modo di uscire dall'ascensore, che il solito schiavetto di mio padre mi placò.

<<Signor Reed, suo padre le vorrebbe parlare.>> Mi informò senza neanche permettermi di uscire dall'ascensore, perchè vi si piazzò davanti. Il solo sapere che non potevo ancora tornare a casa mi irritò immensamente, tanto da farmi innervosire così velocemente che la voglia di prenderlo a pugni, divenne sempre più indomabile. Ma in fondo lui, altro non era che l'ambasciatore di mio padre, e in quanto tale non portava pena. <<Digli che ciò che deve dirmi potrà aspettare fino a domani.>> La voglia che avevo di lei, dopo la sveltina di quella mattina, no, quella di certo non poteva aspettare.
Tentai di superarlo ma si spostò, impedendomi di uscire dall'ascensore.

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