CAPITOLO 18

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WAYNE

Mi ero aspettato qualcosa di peggiore, una tortura estenunate che sarebbe durata per tutta la giornata, ma per quanto fastidioso fosse sentire gli occhi di due uomini puntati addosso, che esaminavano ogni mia azione, ogni minimo contatto che io avessi con Juliette, ogni parola che usciva dalla mia bocca, per il resto non era neanche male stare lì con i Miller.
Mi ero aspettato di trovare gente snob e appariscente come si mostravano di fronte alle telecamere, in realtà erano molto alla mano, molto affabili, si vedeva che le signore Miller anche se non provenivano da famiglie ricche, non si erano fatte montare la testa dalla ricchezza. Erano umili, per quanto ovviamente apprezzassero la ricchezza.
Avevo fatto ricerche su ognuno di loro, sapevo da dove provenissero, dove avevano abitato in passato, i nomi dei loro genitori, cosa avevano fatto da bambini, da adolescenti e da adulti. Sapevo ogni cosa di loro e non avevo trovato nulla che mi scandalizzasse, per quanto difficile fosse, da farmi diffidare da loro. L’unico ad avere qualche virgola fuori posto era il fratello di Juliette, Aidan.
Avevo trovato qualche suo errore passato, avevo scoperto che aveva dei precedenti con la droga, che soffrisse di un disturbo, che da ragazzo passasse più tempo in ospedale che in libertà e che aveva partecipato a gare clandestine. Non diffidavo da loro, ma neanche mi fidavo al cento per cento come non mi fidavo completamente di nessuno, neppure di me stesso. Proprio come loro figlia, anche nel loro passato vi erano delle lacune, cose che avevano fatto offuscare dai loro avvocati, lati della loro storia che volevano che rimanessero in famiglia. Avevano dei segreti, molti, ma come chiunque alla fine.
E anche se non lo davo a vedere, lì analizzavo uno ad uno, mentre fingevo totale tranquillità.
La madre di Juliette era la sua copia, avevano lo stesso carattere combattivo e deciso, ma contrariamente alla signora Miller, Julie era meno esuberante, un po’ come il padre. Non parlava molto, più che altro ascoltava, mi rimaneva accanto e ascoltava le nostre chiacchiere, in silenzio. E non perchè non avesse niente da dire o perchè non si sentisse abbastanza coraggiosa da parlare, semplicemente le piaceva ascoltare, lo avevo notato.
Le ero dovuto stare accanto per tutta la giornata e, mentre a lavoro era un tormento continuo, quel giorno era tranquilla e serena. Eravamo insieme ormai da ore e non avevamo discusso neppure per un’istante.
Avevo appoggiato il braccio sullo schienale della sua sedia, una volta finito di mangiare e lei aveva appoggiato la testa alla mia spalla, senza dire niente.
Avevo notato anche che erano tutti molto calorosi in quella famiglia, il contatto fisico era fondamentale, si abbracciavano, giocavano a tirarsi dei pugni, si sfioravano di continuo dimostrandosi affetto. Ma nessuno si azzardava mai ad abbracciare Juliette. Si vedeva come quel dettaglio cambiasse quando si trattava di toccare lei, ovviamente le dimostravano il loro affetto in altri modi, con gesti veloci, ma non si spendevano con attenzioni più prolungate e a lei sembrava stare bene. Più che bene. 
Non amava il contatto fisico, i gesti dolci, le carezze, gli abbracci. Come me.
Avevamo pranzato in totale sintonia, suo padre mi aveva continuato a riempire di domande per scoprire cose di me che non sapeva, ossia tutto. Cosa facesse mio padre, di cosa mi occupassi, se volevo dei figli, se ero disposto a sposarmi un giorno, se bevevo, se fumavo, se mi facessi controllare annualmente da un medico. Mi aveva riempito di domande a cui avevo risposto in totale tranquillità.
Damon Miller era un uomo tutto d’un pezzo, sui giornali non si era mai mostrato neppure per una volta sorridente, rimanendo sempre serio e imperturbabile ma con la sua famiglia era totalmente un’altra persona.
Si lasciava andare, senza alcun freno che si mettesse tra lui e l’amore che provava per la gente seduta a quel tavolo. Soprattutto per la sua figlia femmina, stravedeva. Come qualunque padre.
Avrei mentito se avessi detto che non ero stato bene lì con loro, fingere di essere fidanzato con una Miller non era così estenuante come avevo previsto, sapevano divertirsi, senza farsi alcun problema, ridendo e scherzando per tutta la giornata.
L’unico che a malapena sembrava respirare era il “cugino” di Julie, quel pel di carota che mi avrebbe voluto morto, ma che più mi guardava male, più mi spingeva ad avvicinarmi alla ragazza al mio fianco. Volevo che gli rodesse vederla felice con me, perchè non mi era bastata la lezione che gli avevo dato l’altra sera.
Ma non mi ero lasciato rovinare la giornata da quel coglione senza palle.
Mi ero calato a meraviglia nella mia parte e non mi dispiaceva affatto, per quanto fosse estenuante dovermi mostrare così loquace, non mi piaceva così tanto essere sotto i riflettori ma ero certo che non sarebbe stato sempre così. Ero la novità, all’inizio ero costretto a stare al centro dell’attenzione.
Dopo aver finito di mangiare avevamo passato l’intero pomeriggio a parlare, tra drink preparati dalla madre di Julie, tuffi in acqua e risate. Sapevano come divertirsi, questo era certo.
E tra una chiacchiera e l’altra erano arrivate le sette di sera. Il tempo era volato e il sole a poco a poco tramontava, colorando il cielo di un dorato intenso, tendente all’arancione e al rosso.
Travis stava raccontando insieme al signor Miller qualche aneddoto sul lavoro, l’ennesimo ed io finalmente potevo godere di un attimo di quiete, distante dalle luci del riflettori.
Quando ecco che notai che Juliette si era appisolata contro la mia spalla, si era addormentata sorprendendomi. Avevo sempre pensato che quella donna non avesse un interruttore dove poterla spegnere, eppure ce l’aveva, anche lei si riposava ogni tanto. Io di certo però non potevo parlare, se c’era qualcuno che non si fermava mai quello ero io.
Mi presi qualche istante per guardarla in quel momento, quando non poteva accorgersene, quando era assente e non avrebbe mai scoperto che per qualche secondo, mi ero perso a guardarla dormire. E per me i secondi valevano molto, lei lo sapeva. Aveva i capelli ancora leggermente umidi dopo la giornata passata in acqua, erano ancora più neri del solito, come quelle sue ciglia lunghe che le contornavano le palpebre chiuse.
Il nasino alla francese si arricciava ogni tanto quando qualche ciocca, mossa dal vento, le solleticava la pelle.
Come accadeva anche ogni volta che mi gridava contro, ogni volta che si arrabbiava facendo quell’espressione da bambinetta imbronciata. Le sopracciglia erano ben curate e sottili, per quanto avevo notato che non fosse una che si curasse così tanto, non si truccava mai, l’unica volta che l’avevo vista truccata era stato quel Mercoledì in cui ci eravamo incontrati da Frank. Ma non mentivo quando dicevo che non le serviva il trucco per apparire più bella. Le gote e le labbra erano arrossate dalla leggera abbronzatura che aveva preso, stando al sole con le altre signore quel pomeriggio. E queste ultime rimanevano schiuse, dai sospiri che le dividevano, e rilassate delineando meglio la loro forma a cuore. Era piccola, tutto di lei la faceva sembrare ancora una bambina. I suoi modi di fare, la sua corporatura, il suo viso, il suo carattere.
Era infantile su molte cose e io non sopportavo le bambinette infantili, infatti spesso e volentieri l’avrei voluta uccidere. Poi però, in momenti come quello, mi chiedevo come si potesse desiderare una cosa simile. Era così innocente in fondo, che non riuscivo neanche ad arrabbiarmi sul serio con lei. E questo mi destabilizzava.
Nessuna era mai riuscita a farmi perdere la ragione lo stesso numero di volte in cui ci era riuscita lei, ma soprattutto mai avevo perso la pazienza così facilmente. O meglio, non così ripetutamente, perchè in effetti non vantavo di chissà quanta pazienza. Eppure da quando la conoscevo avevo imparato a gestirla in maniera diversa o non sarebbe sopravvissuto nessuno dei due.
Ciononostante anche lei ci stava mettendo del suo per migliorare e, anche se non glielo avevo detto, in una settimana aveva già fatto dei progressi. Lei sbagliava, capiva e migliorava, ed era ciò che aveva fatto per tutto quel tempo, senza mai darsi per vinta.
Era forte, dannatamente forte e mi confondeva.
Era una bambina ma era anche una donna, non riuscivo a capirla.
Nascondeva un mondo in quegli occhi verdi, un pianeta che ancora gli astronomi non avevano scoperto dove la vita era possibile, ma solo se lei lo permetteva. Avevo come l’impressione che lasciasse entrare solo chi voleva lei, solo a chi permetteva di conoscerla veramente.
<<Ti andrebbe un bicchiere di Brandy, Wayne?>> La voce di suo padre mi distrasse dal guardarla. Mi stava invitando a bere un bicchiere di acquavite insieme a lui, eppure chissà perchè riuscivo a scorgerci anche un secondo fine in quel suo invito. <<Perchè no.>> Volevo sapere di cosa volesse parlarmi e poi di certo un buon Brandy non potevo rifiutarlo.
Si alzò facendomi cenno di seguirlo, ma prima avevo una piccola cozza da dovermi togliere di dosso.
<<Julie.>> Sussurrai scostandole una ciocca dal viso con la punta dell’indice. <<Juliette dovrei alzarmi.>> Lei a quel mio secondo invito a svegliarsi, si portò una mano al viso per stropiccarsi gli occhi, ancora appoggiata alla mia spalla, e dovevo ammettere che mi ci ero quasi abituato.
<<V-vai via?>> La sua voce era più docile e morbida quando era ancora mezza addormentata.
<<No, devo solo assentarmi un secondo.>> Dunque si allontanò tentando di svegliarsi, mentre io, con la possibilità finalmente di alzarmi, afferrai la maglia e le scarpe, me le misi e seguii suo padre lasciandola con il resto della sua famiglia ancora intenta a chiacchierare.
Mi condusse in casa, passando per l’enorme salotto che avevo già visto per raggiungere il piano di sopra, salendo la lunga gradinata di scale che conducevano al primo piano, vasto come il piano terra ma con più porte che dedussi portassero alle camere da letto. E ce n’erano veramente tante.
Aprì la prima porta a sinistra del corridoio, accendendo la luce su quello che dedussi fosse il suo studio in casa. Si avvicinò al carrello degli alcolici su cui si trovavano già i due bicchieri vuoti e la bottiglia di Brandy, lo aveva programmato e non mi stupì come cosa, avevo come l’impressione che uno come lui non agisse mai senza prima aver calcolato ogni opzione. Anch’io agivo nello stesso modo.
<<Conosci il passato che si cela dietro al Brandy, Reed?>> Richiusi la porta alle mie spalle, avvicinandomi al centro della stanza. Lui si voltò e mi passò il mio bicchiere, da cui proveniva l'odore forte del Brandy costoso che mi aveva appena versato.  <<No, signore.>> Si accomodò su una poltrona facendomi cenno di sedermi su quella proprio dirimpetto. Era un ufficio dall’arredo antico ma non troppo, non di certo moderno come il resto della casa. Lì ancora sopravviveva il legno, la scrivania, la libreria. Per il resto della casa dominava il marmo, lì faceva da sovrano il mogano, più all’antica ma comunque elegante.
<<Ebbene.>> Incominciò osservando il liquido color ambra che rigirava nel bicchiere.
<<Il Brandy è considerato un acquavite che porta con sé un'aura di leggenda cupa, oscura, quasi sempre legata a momenti tetri della vita delle persone.>> Lo ascoltavo in silenzio come era mio solito fare, esaminavo accuratamente chi avevo davanti, calcolando bene come e quando agire, se fosse stato necessario.
<<Non c’è un motivo reale per il quale si sia meritato tale peso, tale carico disgraziato, pensa che all’inizio nacque come semplice medicinale.>> Ne prese un sorso, bagnandosi le labbra.
<<Poi però nei film hanno iniziato a metterlo tra le mani di alcolizzati, o dei cattivi della situazione, facendolo sembrare un alcolico volgare, sudicio, sporco.>> Lo assaggiai a mia volta, anche se già ero consapevole del forte sapore in grado di ammaliare.
<<Spesso accade anche alle persone di essere viste da altri come peccatori quando in realtà sono innocenti, oppure che loro stesse si vedano sbagliate, sporche…>> L’amaro nella sua voce non era dato da ciò che stava bevendo. <<Quando in realtà non sono loro ad essersi sporcate da sole di ingiustizia, ma è avvenuto per mano di altri.>> Bisognava leggere tra le righe in tutto ciò che diceva, ogni sua parola poteva nascondere un secondo fine, un doppio significato, era così che Miller tentava di intortare chi aveva davanti ma lui non era di certo il primo che incontravo che credeva di poter giocare con me.
<<Juliette non è la ricca ragazza fortunata che credi che sia.>> Lo aveva dedotto da solo, senza che io dovessi dire nulla. <<Cioè, lo è, ma non solo.>> Questo l'avevo capito già da me, sapevo che quella ragazza non era solo ciò che tutti credevano, che nascondeva molto, ma mai mi aveva permesso di scoprire qualcosa che andasse oltre a ciò che faceva pensare. <<A quanto so non è da molto che state insieme quindi non credo che ti abbia raccontato qualcosa di sè, è pur sempre mia figlia, è come me su queste cose.>> Chiusa in sè stessa e impossibile da convincere a fidarsi, era questo che si era mostrata di essere quando avevo tentato di conoscerla meglio. <<Esattamente.>> Confermai le sue previsioni, la conosceva davvero bene.
<<Quindi non sai nulla in pratica di lei, niente che riguardi il suo passato.>> Proseguì.
<<Conosco la Juliette che è ad oggi.>> Il presente era tutto ciò che contava.
<<Ciò che è ad oggi è una conseguenza di ciò che è accaduto in passato, e se tu non conosci quella parte della sua vita lei per te è un’assoluta estranea, te lo assicuro.>> Prese un altro sorso di Brandy, tentando di rimanere calmo. <<Cosa può mai essere successo di così grave per averla cambiata così drasticamente?>> Mi guardò con una ferocia negli occhi che sarebbe bastata a bruciarmi vivo, se fosse stato possibile. Avevo appena minimizzato ciò che non conoscevo, e sapevo che forse avevo appena commesso un importante errore, ma non riuscivo a capire come potesse una ragazza come lei aver passato le pene dell’inferno, crescendo in una famiglia come quella dove regnava sovrano l’amore assoluto.
<<Non sono io colui che deve scegliere quanto di lei tu debba conoscere, a tempo debito e se vorrà te lo dirà lei stessa.>> Tagliò corto. <<Ma in quanto padre io devo pensare al bene di mia figlia e avvisarti di un paio di cose.>> Si alzò di nuovo per potersi riempire nuovamente il bicchiere, che con un paio di sorsi era già riuscito a finire. <<Juliette è fragile, non lo mostra ma è molto debole.>> Si appoggiò alla sua scrivania.
<<Quando arriva a fidarsi di qualcuno gli concede anima e corpo, per questo voglio la certezza che non la farai soffrire quando ti accorgerai di esserti stancato di lei.>> Rimasi perplesso, stava mettendo in conto il fatto che prima o poi mi sarei stancato di sua figlia, anche se non c’era alcuna avvisaglia che preannuciasse che ciò potesse accadere, anche perché in realtà neppure stavamo insieme.
<<Perchè dovrei stancarmi di lei?>> Mi alzai anch’io, ma solo per poggiare il bicchiere sul carrello.
<<Perchè mia figlia non è facile, si fa odiare, si rende insopportabile agli occhi degli altri, si fa conoscere per ciò che non è perchè se sei disposto ad apprezzare anche il peggio di lei, prima di conoscerne il meglio, allora è disposta a fidarsi.>> Vista sotto quel punto di vista iniziai a capire molte cose di quella ragazza.
<<Ma arrivare all’ultimo stadio non è un’impresa facile, tutt’altro, anzi nessuno ci è mai arrivato, per questo ti sto avvisando che se ti dovessi mai stancare di lei, non dovrai farla soffrire.>> Si avvicinò affrontandomi a testa alta. <<O ti giuro che ti rovino la vita Wayne Reed, perchè mia figlia ha già speso troppe lacrime per un uomo che le ha tolto tutto, e allora io non ho potuto fare niente.>> La solida sincerità che leggevo nei suoi occhi neri come la pece era brutale e austera come una cinghiata sulla schiena, ma non mi spaventò, anzi mi accese. <<Ma stavolta, se dovesse succedere, non mi farò problemi a passare i miei ultimi anni di vita dietro alle sbarre, te lo assicuro.>> Mi minacciò. <<E’ chiaro?>> Era chiaro il tormento che lo assillava, l'angoscia che lo opprimeva al solo pensiero che Juliette potesse soffrire ancora, ma non mi era chiaro il motivo scatenante di tutta quella vessazione. Non riuscivo a dare un senso alla sua rabbia repressa, qualsiasi padre proteggeva la figlia da possibili sofferenze, ma lui più di altri sembrava accanirsi sul volerla tenere sotto la sua cupola di cristallo per non farla star male.
<<Non serve che mi minaccia, non ho intenzione di far soffrire sua figlia.>> Ma la mia rassicurazione per lui valeva meno di zero, non si fidava e come potevo biasimarlo, la parola di uno sconosciuto valeva meno di niente per un padre apprensivo. Tanto che gli sfuggi una risata sarcastica, confermando la mia previsione, non mi credeva affatto. <<Le parole sono solo carezze al vento Wayne, ho un’esperienza di vita abbastanza solida da poter dire che di uomini come te ce n’è pieno il mondo, ma come me ce ne sono pochi.>> Non riuscii a mandar giù quella sua ultima considerazione, non mi conosceva e di certo non poteva dare delle valutazioni alla mia persona su basi infondate. Se di uomini come lui ce n’erano pochi, di uomini come me non ce n’era neanche uno.
<<Cosa starebbe insinuando?>> Iniziavo anch’io ad innervosirmi.
<<Che di te non c’è da fidarsi.>> Ammise. <<Tutta la messinscena dell’uomo perfetto che vizia i nipoti della fidanzata, che ammalia la sua famiglia per rendersi più facile il tentativo di fregarli, i gesti melensi, le parole dolci.>> Elencò con ribrezzo. <<Le prese per il culo a me non vanno giù Reed, se pensi di poter entrare in casa mia a fare i tuoi giochetti del cazzo ti sbagli di grosso, io non mi faccio fottere da nessuno, men  che meno da un pallone gonfiato come te.>> Credeva che lo stessi prendendo in giro, che li stessi prendendo in giro tutti ma non sapeva che non ero lì per mia volontà, quella che lo stava fottendo era sua figlia, sangue del suo sangue, non l’uomo che aveva davanti.
<<Non sto facendo giochetti di alcun tipo, sono venuto perchè Juliette mi ha invitato, non di certo per trarne qualche vantaggio o per prendere per il culo la gente.>> Non aveva idea di cosa stesse parlando, non sapeva assolutamente niente. <<Comprendo il suo voler proteggere Julie, ma non le permetto di offendermi in questo modo.>> Non sapevo chi credeva di aver davanti, ma di certo io non ero uno di quei ricconi idoiti, che si lasciavano mettere i piedi in testa dal primo che aveva più soldi di loro. A me non fregava un cazzo di chi fosse, se dovevo gli avrei insegnato che con me c’era poco da fare il gradasso.
<<Ma come te la prendi facilmente Reed, che c’è? Ti senti forse minacciato da me?>> Il sorriso infido che gli increspò le labbra mi causò un brivido di fastidio che mi attraverò il corpo, insinuando in me il desiderio di fargli male per fargli capire che nessuno riusciva a farmi sentire minacciato, impaurito.
Poi però capii.
Mi stava solo provocando.
Voleva vedere fino a che punto ero disposto a trattenermi senza fare niente, lasciandomi insultare.
Se avrei perso le staffe come era accaduto con suo nipote, così avrebbe avuto la possibilità di tagliarmi fuori dalla vita di sua figlia prima ancora che ci potessi entrare. Mi stava mettendo alla prova.
Ma non sarei stato al suo gioco.
<<Nessuno a questo mondo sarebbe in grado di spaventarmi, tantomeno lei.>> Misi in chiaro le cose avvicinandomi a lui, guardandolo dritto negli occhi. Se stava cercando qualcuno in grado di tenergli testa, si poteva ritenere fortunato, aveva davanti la sua nemesi.
<<Che lei si fidi o meno di me non me ne frega un cazzo, io so chi sono e so di agire sempre in buona fede, se poi vede del marcio nelle mie azioni, può anche andare a farsi fottere.>> L’ira che vidi prendere fuoco in quegli occhi oscuri tanto quanto i miei, bastò a farmi capire che aveva smesso di vedermi come un ragazzino, ma che avesse iniziato finalmente a vedermi come l’uomo che in realtà ero. Smettendo di prendermi per il culo
<<Attento Reed, perchè a metterti contro di me ci perdi soltanto.>> Ringhiò furioso, ritrovandosi ad essere lui quello prossimo a perdere le staffe, aveva perso il manico del coltello che in quel momento impugnavo io, puntandolo contro il suo collo.
<<Cosa? Cosa ci perdo? La sua benedizione per avere la mano di sua figlia? Ma mi faccia il piacere.>> Gli risi in faccia, privo di pudore. <<Inizi a capire che io non temo niente e nessuno signor Miller, neppure i montati pieni di soldi come lei.>> Avrebbe avuto il potere di rovinarmi la vita, bene, ma se pensava che per questo lo avrei temuto si sbagliava di grosso. Lo avrei preceduto. Non mi avrebbe fatto di certo un torto se mi avesse tolto sua figlia, neppure stavamo realmente insieme. Ma da quel momento avrei fatto di tutto per rimanerle affianco, non per lei, ma per vederlo perdere sempre di più il controllo, proprio come quel pel di carota di suo nipote.
Vidi i suoi pugni stringersi talmente forte che le nocche gli si sbiancarono, conoscevo quella sensazione, il desiderio di far tacere l’altro a suon di pugno, sfogare sull’altra persona tutta la rabbia che ti divorava le interiora, ma non poteva. Non poteva sfogarsi su di me o sarebbe stato lui quello a passare dalla parte del torto, sarebbe stato lui a passare per l’animale, per il manesco, per quello che non conosceva la parola “controllo”.
Ero lui quello che voleva provocare, ma era finito con l’essere provocato.
Non sapeva quanto quella situazione mi stesse soddisfando.
<<Vattene.>> Latrò, prima con un filo di voce. <<Esci da questa casa!>> Gridò poi, a pieni polmoni.
<<Con piacere.>> Non dissi altro andandomene da quella stanza con passo spedito, desideroso di lasciare quella casa con l’intento di non tornarci mai più. E pensare che era persino riuscito a farmi credere per tutta la giornata, che un minimo di equilibrio e sopportazione reciproca potesse nascere. Era dei Miller che non ci si poteva fidare, non di certo di me.
Scesi le scale a passo spedito, notando che il resto della famiglia stava rientrando in salotto, probabilmente attirata dal grido che era arrivato fino al giardino. Non capivano cosa stesse succedendo, erano totalmente ignari di ciò che era appena accaduto.
<<Wayne, che è successo?>>La mano di Juliette che mi afferrò per il braccio, fermò la mia marcia spedita verso la porta, facendomi così girare e notare che anche suo padre era sceso, furioso più che mai.
<<Lascia che se ne vada Juliette, quel grandissimo figlio di puttana non metterà mai più piede in questa casa.>>
Figlio di puttana.
Bastarono quelle tre parole a mandarmi fuori di testa, facendomi perdere quel briciolo di ragione che ancora possedevo. Ero arrivato al limite.
<<Cos’ha detto?>> Tentai di andargli incontro ma Julie mi trattenne, mettendosi davanti a me come fecero anche Travis, James, Aidan e sua moglie che tentava di farlo calmare ma senza ottenere ottimi risultati. Mancava solo Charlie all'appello, che sicuramente stava distraendo i bambini in giardino, pur di non farli assistere a quello sfacelo.
<<Avvicinati se non hai sentito bene, che te lo ripeto.>> Mi sfidò e io lo ascoltai, venendo però bloccato un'altra volta da sua figlia, che mi fermava dal fare qualche stupidaggine.
<<Si azzardi un’altra volta a dire ciò che ha appena detto e le giuro che gliene farò pentire amaramente.>> C’erano tasti che non permettevo a nessuno di toccare, a nessuno, senza alcuna eccezione e lui si stava spingendo fin troppo oltre. <<Juliette portalo fuori, o qui scoppia un macello.>> Si mise in mezzo suo fratello, invitando la sorella a portarmi via prima che uno dei due saltasse addosso all’altro. E così lei fece, trascinandomi per il braccio fuori da quella casa tanto grande quanto vuota. Avevo sempre fatto bene a pensare che quella gente non fosse altro che lo scarto di una società troppo attaccata alle apparenze, non c’era nulla di buono in quella famiglia.
<<Si può sapere cos’hai fatto?>> Fu la prima cosa che mi domandò, una volta usciti dalla porta di casa, mentre io ancora cercavo di ritornare in me ma senza riuscirci. Stava dando per scontato che la miccia che aveva fatto scoppiare tutto quel putiferio l’avessi accesa io, che fosse a causa mia che suo padre era arrivato a gridare a quel modo, non che magari potevo avere anch’io una parte di ragione in tutta quella storia.
<<Cos’ho fatto? Certo perchè ovviamente è colpa mia anche adesso non è così?>> Era colpa mia in quel momento, com’era stata colpa mia anche fuori da quel dannatissimo locale quando l’avevo protetta dalle accuse di suo cugino, era sempre colpa mia. <<Mio padre non perde mai le staffe senza un buon motivo.>> Ancora una volta si schierò dalla parte della sua famiglia, mettendosi contro di me senza darmi neppure il tempo di spiegarle la situazione, era sempre pronta a farmi la guerra. <<Perchè io invece sì? Sono un pazzo che perde il lume della ragione così, a caso.>> Avevo i nervi a fior di pelle e trovarmela contro, per l’ennesima volta, non faceva che peggiorare la situazione. <<Non ho detto questo, vorrei solo sapere cosa è successo per farvi litigare così.>>
Mi passai una mano tra i capelli, sentendo di star per impazzire.
<<All’inizio abbiamo parlato tranquillamente, poi ha iniziato a provocarmi per vedere se perdevo la calma come è successo con tuo cugino, ma quando ho risposto a tono alle sue provocazioni a quel punto è stato lui quello a perdere la ragione.>> Perchè era facile accanirsi su una persona che non aveva il coraggio di ribattere, ma quando poi invece si trovava qualcuno che di fronte ad un’ingiustizia non taceva, era lì che i problemi iniziavano a farsi vivi. E se prima Julie era pronta a farmi la guerra, dopo aver sentito la mia spiegazione sembrò prendersi un attimo per ragionare. Conosceva suo padre e avevo come l’impressione che sapesse bene che fosse da lui fare cose simili, come spingere al limite una persona.
<<Senti Wayne, mi dispiace, te l’avevo detto che mio padre è complicato ma->>
<<Ma un cazzo!>> La interruppi.<<La prossima volta che tuo padre si azzarda a dare della puttana a mia madre, te lo giuro che non mi fermerò di fronte a niente e nessuno pur di spaccargli la faccia, ti è chiaro?>> Le gridai ad un palmo dalla faccia, vedendo nei suoi occhi il dispiacere che provava nei miei confronti. Mia madre era il mio unico punto debole, l’unico in grado di farmi perdere la ragione, l’unico tassello mancante della mia vita che aveva lasciato una voragine in me talmente incolmabile da togliermi ogni cosa, ogni certezza, ogni convinzione, ogni appoggio. Ma anche ogni paura, perchè dopo aver perso lei, non avevo più paura di perdere più niente o nessuno, neppure me stesso.
Era l’unica che ancora, senza neppure essere presente, riuscisse a farmi sentire una nullità come accadeva quando lei c’era ancora. In effetti con lei o senza di lei, ciò che ero non era mai cambiato.
L’unica cosa che era cambiata in quel momento era il modo con cui Julie mi vedeva.
Aveva appena conosciuto la mia unica debolezza, nonchè la più grande.
Il mio tallone d’Achille.
<<Wayne->> Sospirò afflitta.
<<No, scusa, non ha senso che me la prenda con te, è che sono stanco, è meglio se torno a casa.>> Avevo solo bisogno di andarmene da lì, tornare a casa e dimenticare quella giornata insieme a tante altre cose che ancora mi portavo dentro, e che mi faceva più male di tante coltellate al petto.
<<E come pensi di andartene senza chiavi della macchina e telefono?>> Un sorriso docile le colorò le labbra, mentre mi porgeva entrambe le cose facendomi ricordare che le avevo lasciate in casa, pensando che sarei tornato in giardino a riprenderle dopo la chiacchierata con suo padre. Mi ero sbagliato.
<<Le ho prese quando ho visto che la chiacchierata stava diventando più lunga del previsto e te le stavo per portare, quando poi però sei sceso prima che io potessi salire.>> Lei che faceva qualcosa di gentile per me, probabilmente era la stanchezza a farmi venire le allucinazioni, di certo non poteva essere vero, non era proprio da lei. Allungai la mano per prenderle ma lei le ritrasse, cogliendomi alla sprovvista, quando mi si avvicinò avvolgendomi le braccia al collo.
Mi abbracciò, lei, Juliette Miller, la donna che probabilmente più mi avrebbe voluto morto, mi abbracciò lasciandomi spiazzato. Non era da lei, non l'avevo vista neppure abbracciare la sua famiglia, o prendere in braccio i suoi nipotini. Eppure in quell' istante sembrò lasciarsi andare.
Rimasi rigido, non aspettandomi quel contatto spinto probabilmente dal dispiacere scaturito da ciò che era successo.
Quando però feci per ricambiare quella stretta, avvicinando le braccia al suo corpo, le si allontanò di scatto. Non voleva essere abbracciata, non  amava i contatti prolungati di quel genere e non mi spiegavo il motivo. Ma ormai c'erano tante cose a cui non riuscivo a dare una risposta.
<<Buonanotte Reed.>> Mi augurò ponendo fine a quel momento, era nervosa, forse anche più di me che per un certo senso ero riuscito a distrarmi con quel suo abbraccio, perdendo un po' di tensione che mi aveva annientato i nervi. Mi allungo di nuovo le mie cose ma questa volta me le lasciò prendere.
La giornata era giunta al termine e, per quel momento, la farsa era in pausa, non serviva più recitare in quell'istante.
Io ero tornato ad essere semplicemente il suo capo.
Lei una dei miei agenti.
<<Buonanotte Miller.>>

SPAZIO AUTRICE:

Eravamo consapevoli che non si sarebbe potuta concludere bene una possibile chiacchierata tra Reed e Damon, ma ho come l'impressione che da questo momento in poi non si staranno molto simpatici. Eppure in qualche modo il rapporto tra Wayne e Julie sembra comunque essere migliorato, anche se gradualmente e a fatica. Ne prossimi capitoli tutto si accenderà sempre più, in ambito Ve lo lascio intuire da sole, ma Reed riuscirà a far dimenticare a Juliette il suo James?

Cosa ne pensate?

Al prossimo capitolo mie fanciulle <3

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